Franco Marini, il sindacalista-alpino che sfiorò il Quirinale. L’ultimo libro di Giorgio Merlo
Una prima vita nel sindacato, una second life nella politica. A legare l’una e l’altra, una tenacia tutta abruzzese e il passo cadenzato dell’alpino. Franco Marini ci ha lasciato solo tre mesi fa. Un tempo comunque sufficiente a Giorgio Merlo, giornalista e blogger, per dedicagli una accurata e avvincente biografia (“Franco Marini, il Popolare” Edizioni Lavoro, 120 pagg. 15 €, prefazione di Annamaria Furlan e introduzione di Gerardo Bianco) che riannoda le fasi essenziali dell’impegno sindacal-politico dell’ex-presidente del Senato attraverso il filo di una visione coerentemente ispirata alla dottrina sociale della Chiesa. Personalità tanto poco esplorata quanto assai interessante, quella di Marini. Della Cisl, il sindacato cattolico, è già un protagonista quando le tensioni sociali culminate nel cosiddetto “autunno caldo” del 1969 condurranno l’anno successivo all’approvazione dello Statuto dei Lavoratori.
Marini, un democristiano anomalo
Il decennio inaugurato da quella riforma coinciderà con la stagione più controversa del sindacato italiano. Sono gli anni in cui è la Triplice (Cgil, Cisl e Uil) a dettare l’agenda politica al governo. Ma sono anche gli anni in cui il Pci conquista quote crescenti di elettorato fino a portarsi a metà decennio ad un’incollatura dalla Dc. Il tema dell’autonomia delle battaglie per il lavoro dalle dispute ideologiche o relative agli assetti di governo acquista in quel tempo sempre più spazio e ancor più legittimazione. Tra i suoi più convinti assertori – racconta Merlo – c’è anche il cislino Marini, temperamento coraggioso, ruvido e sanguigno e perciò stesso anomalo nel felpato mondo democristiano. Marini vi appartiene, ma a modo suo. Dall’esperienza sindacale mutua il pallino per l’organizzazione. Una vocazione che l’autore enfatizza a tal punto da rendere il dibattito sulla forma-partito una sorta di filo conduttore in parallelo del libro.
Nemico della lotta di classe
Nella Dc, Marini aderisce a Forze Nuove, la corrente di Carlo Donat Cattin e che lui stesso guiderà dopo la morte del fondatore. Più che un sindacalista, Marini è un antico tribuno della plebe. Crede nel moto ascensionale (oggi si chiama ascensore sociale) dei ceti popolari. Per lui, la democrazia o è sociale o è destinata al fallimento. Ma l’elevazione delle classi più umili e maggiormente bisognose – e questo è un cardine irrinunciabile del sindacalismo cattolico come di quello nazionale – è obiettivo che persegue depurando il conflitto sociale dai suoi mefitici miasmi classisti. «Senza i ceti popolari – scrive l’autore citando un passaggio della relazione conclusiva di Marini al convegno di Forze Nuove del settembre ’92 a Saint-Vincent – le istituzioni non sarebbero in grado di percepire umori, aspirazioni, bisogni e valori che contribuiscono a renderle vitali e funzionanti».
Nel ’92 la sfida elettorale con Sbardella
Pochi mesi prima, il tribuno aveva tagliato il traguardo dell’elezione al Parlamento risultando il più votato in Italia. Battè persino Vittorio Sbardella, lo Squalo, nonostante fosse libero di scorrazzare nel mare magnum delle preferenze andreottiane, ormai svincolate dopo la nomina del Divo Giulio a senatore a vita. Un successo di popolo che convince Mino Martinazzoli a metterlo a capo dell’organizzazione. Il ’92 è un anno cruciale per la politica e la democrazia italiana. Il pool milanese di “Mani Pulite” è già in attività e nel giro di due anni la loro inchiesta su Tangentopoli travolgerà quel che resta della Repubblica dei partiti, a cominciare dalla Dc e dal Psi. Da sindacalista prestato alla politica, nella nuova Italia bipolare dell’“o di qua o di là”, per Marini è del tutto naturale schierarsi a sinistra. Ma anche in questo caso – e Merlo lo evidenzia con particolare vigore – a modo suo.
Da Marini «eredità, ma non eredi»
Che si trattasse del Ppi o della Margherita, era un suo chiodo fisso preservare la concretezza delle forme esteriori della politica: sedi di partito, organizzazione e militanti in carne e ossa. «Lui credeva nell’alleanza dell’Ulivo e nel Pd, ma non credeva alle forme tendenti alla liquidità», è la testimonianza di Pier Luigi Castagnetti raccolta dall’autore. A sinistra, si diceva, ma a modo suo. Di parte, ma non fazioso, intransigente sui principi senza mai sottarsi al confronto e uomo di equilibrio anche nelle fasi più arroventate dell’antiberlusconismo, il sindacalista prestato alla politica aveva tutte le carte per aspirare a chiudere la sua carriera di tribuno e di politico sul Colle più alto. Sembrava fatta, ma mancò l’obiettivo in un clima avvelenato di accuse e di sospetti mai chiariti. A conclusione del suo libro, Merlo scrive che Marini «lascia una ricca eredità, ma senza eredi». Non necessariamente un male se consideriamo che spesso l’unica attività in cui eccellono i secondi è nella dissipazione della prima. Soprattutto in politica.