Belluno: haters lo accusano di razzismo, 28enne si uccide. E la sinistra non dice una parola
Del 28enne bellunese Nicola Mina, morto suicida dopo aver saldato con due mesi di anticipo le spese del proprio funerale, si parlerà poco e si scriverà di meno. Già, la sua storia è una di quelle scomode per via di quegli intarsi contestuali che mal s’attagliano agli stilemi del politicamente corretto. Un po’ come la giovane Saman, sulla cui morte violenta la sinistra femminista si è imposta il silenzio pur di lasciarsi scappare una sola parola di critica all’Islam. L’accusa di razzismo, si sa, è in agguato. Persino in danno di chi è lesto e disinvolto nel lanciarla anche quando non c’entra. A differenza della ragazza pakistana, tuttavia, il giovane bellunese si è ucciso dopo aver tentato a sua volta di uccidere.
Un anno fa il 28enne aveva ferito un senegalese
È storia di una rissa scoppiata nell’agosto di un anno fa in un bar di periferia a San Pietro di Cadore. L’escalation è tipica: insulti, spintoni, corpi avvinghiati fino alla fatale estrazione di un’arma. Quella di Mina è un piccolo coltello. Lo affonda nelle viscere dell’altro lottatore, un ambulante senegalese di 47 anni. Fortunatamente il taglio non è mortale e il ferito si rimette in sesto. Ad accasciarsi, invece, è il mancato omicida. A prostralo nello spirito è la gogna social seguita all’episodio. Non perché abbia estratto il coltello, ma perché razzista. In realtà, il colore della pelle del senegalese non c’entra nulla. La lite fra i due origina da motivi personali. Ma per gli haters, gli odiatori di mestiere, è un trascurabile dettaglio. Se il mancato omicida è bianco e il mancato morto è nero, il razzismo deve entrarci. E allora dagli all’untore.
Il razzismo non c’entrava
Strano a credersi – almeno per i sensibili olfatti della sinistra – ma persino uno che gira armato può accasciarsi di fronte alle accuse di razzismo. No, non era il processo a fargli paura. Sapeva di aver infranto la legge e mai aveva tentato di sottrarsi alle proprie responsabilità. Quel che non sopportava era “l’aggravante” appioppatagli dai leoni da tastiera. Insomma: mancato omicida sì, razzista no. Ma il processo parallelo in corso sui social aveva già emesso la propria sentenza. Che diventa addirittura di morte nel momento in cui il giovane realizza che sarà più dura di quella del tribunale poiché inappellabile e incancellabile. Una consapevolezza che gli scava una voragine nell’anima. Fino a convincerlo, scrivono i familiari in una lettera al Gazzettino, «che togliersi la vita sarebbe stata l’unica soluzione». Morale: odiare l’odio (presunto, in questo caso) non è la soluzione. Il morto ci scappa lo stesso.