Giustizia, 38 anni fa l’arresto di Enzo Tortora. Dai Radicali referendum sulle toghe che sbagliano

17 Giu 2021 11:04 - di Francesca De Ambra
Enzo Tortora

Era l’alba di 38 anni fa quando i carabinieri bussarono alla porta della camera d’albergo che ospitava Enzo Tortora. Cominciava così, alle prime luci di quel 17 giugno 1983 e con un uomo condotto in manette fuori dall’Hotel Plaza di Roma, uno dei più celebri calvari giudiziari di sempre. Se la Francia aveva avuto il suo Alfred Dreyfus, l’Italia stava per incatenare alla colonna infame quel giornalista dall’aspetto gentile e dall’eloquio forbito con l’accusa di essere un sodale di Raffaele Cutolo, il boss dei boss della camorra napoletana. Si vedeva a occhio che con quella gente Tortora non c’entrava nulla. Sarebbe bastato controllare meglio un cognome trascritto con incerta calligrafia su una rubrica e che faceva leggere “Tortora” anziché “Tortona“. Accanto un numero telefonico con il prefisso di Caserta.

Enzo Tortora accusato per camorra

Ecco sarebbe bastato alzare la cornetta e comporre quel numero per capire che con quella torma di pentiti che lo accusavano di ogni nefandezza, persino di essere un «venditore di morte», il conduttore di Portobello non c’entrava nulla. Apposta, più che innocente, si dichiarava «estraneo». Un abbaglio evidente. Eppure ci vollero tre gradi di giudizio per accertarlo. Il primo finì con una condanna a 10 anni. Sì, in base a quel vergognoso verdetto che ancora oggi dovrebbe pesare come una maledizione biblica su quanti hanno contribuito a confezionarlo, Enzo Tortora era un camorrista. Certo, poi arrivò la piena assoluzione in Appello, la conferma della Cassazione. Infine, la morte. Che non faticò poi tanto ad avere ragione di quel fisico minato dalle ingiustizie subite. Non solo dai tribunali, ma anche da tanti suoi colleghi giornalisti. Fu allora che debuttò il circo mediatico-giudiziario.

Nel 1988 il Parlamento tradì il voto referendario

E fu sull’onda dell’indignazione suscitata da quell’uomo perbene tempestato di flash con gli schiavettoni ai polsi che gli italiani decisero che anche chi indossa la toga, se sbaglia, deve pagare. Ottenne l’80,21 per cento di consensi il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati voluto dai Radicali nel 1987. Ma solo l’anno dopo il Parlamento tradì platealmente quel plebiscito. La legge Vassalli – votata da Dc, Psi e Pci – scaricava infatti sullo Stato, cioè sul contribuente e quindi anche sul Tortora di turno, l’onere del risarcimento per l’errore giudiziario causato da dolo o colpa grave. Incredibile, ma vero. Una lezione da non dimenticare alla luce del nuovo referendum promosso ancora dai Radicali e sostenuto anche da Salvini. Soprattutto, un’occasione da non perdere. Il sacrificio di Enzo Tortora e di tanti innocenti non dovrà essere più tradito.

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