Giustizia, bastano 5 parole per accorciare i tempi del processo penale: il ddl che le mette nero su bianco
È sul tavolo dal 2018, senza esito. E anche ora che a imprimere una nuova urgenza è arrivato il Recovery, la riforma della giustizia resta questione più che mai ostica, tra visioni e proposte politiche che non trovano un punto di sintesi, tanto più con una maggioranza così eterogenea. Eppure, ora c’è un disegno di legge che identifica in cinque parole la chiave per imprimere, per lo meno al processo penale, quell’accelerazione tanto auspicata, e sollecitata anche da Bruxelles. Le cinque parole sono: «A pena di nullità assoluta». E rappresentano, di fatto, il cuore del ddl per le “Modifiche del codice di procedura penale in materia di tempi del procedimento”, presentato da Forza Italia, primo firmatario Luigi Vitali, con la sottoscrizione anche del senatore Alberto Balboni di FdI.
Tre interventi per accelerare il processo penale
Il disegno di legge propone di intervenire su soli quattro articoli del codice di procedura penale, ma in qualche modo delinea una «riforma», come l’hanno definita i promotori, degli aspetti deteriori dei nostri processi: durata delle indagini, uso eccessivo della carcerazione preventiva, tempi biblici dovuti ai rinvii. Messi insieme questi tre elementi riporterebbero il processo alla sua natura di «strumento di garanzia del cittadino», come fatto notare nel corso della conferenza stampa di presentazione del ddl alla quale, oltre a Vitali, hanno partecipato la capogruppo di Forza Italia al Senato, Anna Maria Bernini, e i senatori Giacomo Caliendo e Franco Dal Mas.
L’iscrizione della notizia di reato
L’articolo 1 del disegno di legge prevede che il pm iscriva entro 24 ore la notizia di reato di cui è venuto a conoscenza. In realtà, è già previsto dalla riforma del 1989, che però non ha previsto alcun meccanismo sanzionatorio per rendere stringente il dettato. Ecco, dunque, l’aggiunta di quelle 5 parole per rendere efficace l’articolo 335: «A pena di nullità assoluta». Anche perché la durata delle indagini ha una diretta ripercussione sui tempi della prescrizione, un altro tema caldissimo del momento. «La prescrizione – ha chiarito Vitali – matura in gran parte nel periodo delle indagini preliminari».
Un limite certo per la carcerazione preventiva
Insomma, è il senso della norma, o il pm si muove o salta tutto. Lo stesso vale per la questione della detenzione preventiva, che per altro è anche oggetto di un quesito referendario. Se scatta il carcere, è il ragionamento dei proponenti, vuol dire che i fatti sono gravi o comunque di particolare allarme sociale e allora si proceda di conseguenza, con urgenza. A tutela sia dell’indagato, che troppo spesso finisce nel tritacarne mediatico senza poi riuscire più a rimettere insieme i pezzi neanche in caso di assoluzione, sia della collettività.
Il processo entro 3 mesi
Per questo «a pena di nullità assoluta», il ddl 2261, rispetto agli articoli 407 e 453 del codice di procedura penale, prevede che il pm chieda il «giudizio immediato» e comunque «entro 60 giorni dall’esecuzione di una misura cautelare». Poi, entro 30 giorni, sempre «a pena della nullità assoluta», deve iniziare il processo. Così, ha sottolineato Vitali, in tre mesi il cittadino arrestato e la collettività avrebbero la garanzia di una risposta, sia essa di assoluzione o di condanna.
Stop ai tempi biblici dei rinvii
Infine, i rinvii, regolati dall’articolo 477. I teoria non potrebbero andare oltre i dieci giorni, nella pratica è noto, invece, come va. Ecco, dunque, di nuovo le cinque paroline magiche per fare in modo che nel processo penale la teoria diventi anche pratica. «La nostra proposta – ha spiegato Vitali – conferma lo spirito della riforma del 1989. Ma allora forse il legislatore fu mosso da una eccessiva fiducia nei confronti di chi avrebbe dovuto applicare la norma e non inserì sanzioni in caso non fosse stata rispettata. Così oggi ci ritroviamo con atteggiamenti al limite dell’arbitrario, con un danno per indagati e imputati e per la stessa giustizia». Ma per sanare questa lacuna, ha chiarito quindi il presidente del Consiglio di garanzia del Senato, «non servono grandi sistemi, commissioni di esperti e professori, bastano degli umili praticanti del diritto». E cinque parole.