Maryan Ismail, quello di Saman è femminicidio: femministe non pervenute, come per Hina e le altre
«Quello di Saman Abbas è un femminicidio. E nessuno ha il coraggio di dirlo». La sentenza che la professoressa Maryan Ismail, nata in Somalia e in Italia da 35 anni, docente di antropologia dell’immigrazione, emette sul caso della 18enne Pakistan scomparsa nel Reggiano, è netta. Dura con l’Ucoii – l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia – e altrettanto lapidaria per quanto concerne il ruolo e la presenza delle femministe in questa vicenda. Tanto che, proprio nella conclusione di una interessante intervista che la Ismail ha rilasciato a Francesco Borgonovo per La Verità, conclude emblematicamente dicendo: «Sembra che la posizione di debolezza delle donne musulmane non abbia la stessa cittadinanza riservata ad altre. In questo caso è vietato parlare di femminicidio, di diritti mancati, di diseguaglianze e di discriminazione. È come se volessero tenerci tutte in un angolo. Come se fosse rassicurante per mantenere la polarizzazione politica e ideologica. E invece queste sono battaglie che vanno combattute, e dovremmo farlo insieme».
Maryan Ismail: «Quello di Saman Abbas è un femminicidio». Ma le femministe tacciono
E invece, la tragica vicenda della ragazza pakistana che gli inquirenti sono ormai convinti sia vittima di un efferato omicidio commissionato dal padre della giovane ed eseguito da zio e cugini della vittima. Saman, di cui da giorni le forze dell’ordine stanno ormai cercando solo le spoglie è un femminicidio in piena regola. Con tutti gli annessi e connessi: a partire dalle vessazioni culturali che la 18enne pakistana ha subito all’interno della sua famiglia che le ha negato tutto: compresa l’educazione scolastica. Lei, che a detta di insegnanti delle medie era una ragazzina intelligente e brillante che voleva iscriversi al liceo e a cui i genitori hanno negato questa possibilità. Saman, che con l’arrivo in Italia nel 2016, sognava di diventare almeno una barista, e che invece ha conosciuto solo la reclusione in famiglia e l’incubo di una cultura ancestrale che la voleva relegata in un angolo domestico silenzioso e marginale. Una ragazza che ha visto calpestare il sogno romantico, che aveva appena cominciato a vivere con un ragazzo, pakistano come lei, spezzato dall’obbligo di una matrimonio «forzato» – specifica opportunamente la Ismail – e non semplicemente «combinato» da suo padre, con un lontano parente che vive in Pakistan…
Ismail: la condanna dell’Ucoii? «Suona come una conveniente e opportunistica»
E allora, di fronte a tutto questo, rivendica Maryan Ismail, non basta che l’Ucoii abbia emesso una fatwa contro i matrimoni forzati e le mutilazioni genitali. «Non credo che la fatwa sia utile. Non lo è perché abbiamo già tutti gli strumenti legali per superare il problema», spiega la docente somala. E prosegue: «Se poi tale fatwa viene dichiarata dall’Ucoii, suona come una conveniente e opportunistica corsa a farsi accettare come moderati e portatori di diritti universali. Sappiamo tutti che l’Ucoii afferisce alla fratellanza musulmana, come ben ci ha ricordato il professor Redouane, segretario generale della grande moschea di Roma. Non mi pare di aver letto smentite in merito». Del resto, aggiunge a stretto giro sempre nell’intervista a La Verità la Ismail, «l’Ucoii non mi pare si sia espressa contro altri femminicidi di ragazze musulmane.
Da Hina a Sana, fino a Saman: tutte le vittime dell’oscurantismo culturale
Non abbiamo avuto alcun loro sostegno al processo contro Mohamed, padre di Hina Saleem, o contro El Ketawi, padre di Sanaa Dafani. Nessun contributo riguardo all’atroce morte di Sana Cheema di Brescia, avvenuta in Pakistan. Non una parola a sostegno di Jamila di Brescia costretta ad abortire dai genitori perché aspettava un figlio dal suo compagno pachistano, non scelto dalla famiglia. E neppure per la ragazzina egiziana di Torino che tentò il suicidio per scampare al matrimonio forzato con un suo lontano cugino. Silenzio anche per il caso della ragazzina pachistana di Bologna rasata a zero dai familiari, perché non voleva indossare il hijab. Per non parlare poi della madre di Sheen Butt, uccisa perché voleva difendere la figlia perché disonorava il nome della famiglia paterna».
Perché la fatwa non basta e non può bastare
Perché non basta e non può bastare una semplice condanna dell’Ucoii? Innanzitutto perché «la fatwa è una condanna religiosa. L’aspetto religioso può sollecitare le coscienze, fare da supporto, va bene. Ma stiamo attenti. Quella fatwa allarga il problema anche alle mutilazioni genitali. Il che vuol dire – prosegue la professoressa – che tutto ciò che riguarda il corpo della donna rientra nel campo religioso. Invece qui abbiamo cittadine che sono tutelate da leggi dello Stato. Sono quelle le leggi da rispettare». Ma il problema non riguarda solo l’Ucoii: anche le femministe, che tutti ci aspetteremmo in prima linea in un caso tragico come quello di Saman, latitano e mancano all’appello. Come mai? «Perché entra in gioco il relativismo culturale», spiega la professoressa somala. E del resto, aggiunge, non è la prima volta che in casi come questi le femministe risultano “non pervenute”. «Quando noi donne musulmane andammo a Brescia per Hina, non c’erano femministe. C’erano solo Daniela Santanchè e Anselma Dell’Olio. Eravamo sole contro gli imam e la comunità pakistana».
Omicidio di Saman: dove sono le femministe?
Insomma, la Ismail denuncia una sorta di controversa connivenza delle femministe con la parte più oscurantista dell’islam. E infatti, poco dopo nell’intervista sottolinea: «Il discorso è più o meno questo: visto che non posso toccare la loro cultura, allora mi astengo. Noi da anni ci chiediamo dove siano i movimenti femministi. Se dessero un segnale concreto aiuterebbero molto il nostro lavoro. Le femministe sono assenti quando le donne iraniane protestano contro l’imposizione del velo, invece sono presentissime a sostegno delle battaglie di altre donne musulmane per il diritto di portare il velo». Da tempo lei conduce questa battaglia contro l’imposizione del velo. E lo fa da musulmana. «Sì, ma io e altre per questo veniamo escluse. Ci trattano come se non fossimo musulmane, è una sorta di islamofobia al contrario. È come se fossero “vere musulmane” solo quelle che sostengono l’obbligo di portare il velo. Ma non esiste un precetto islamico che obblighi a portarlo, non ci sono posizioni definitive delle varie scuole su questo». Ma la regola teorica e la “possibilità” di disattenderla, si sa, è un terreno minato. Un campo sul quale finora troppe giovani vite sono state già sacrificate. E quella di Saman è l’ultima in ordine di tempo...