È morto il magistrato Nicolò Amato. L’intervista al “Secolo” nella quale denunciò la trattativa Stato-Mafia
Nicolò Amato, il magistrato che per lungo tempo ha rappresentato la Procura di Roma nei più importanti processi, come quello per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e la strage della sua scorta e quello per l’attentato a Giovanni Paolo II, è morto la notte scorsa. Aveva 88 anni.
Per quasi undici anni, dal gennaio 1983 al giugno 1993, Amato ha diretto il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) cui ha dato un impulso fortemente innovatore, con la ripresa dell’applicazione della riforma del 1975 e contribuendo in maniera determinante alla riforma del 1986, con la cosidetta legge Gozzini, ed alla riforma del 1990 per la ristrutturazione del sistema carcerario.
Gli anni da direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria
Durante il periodo del terrorismo politico e delle stragi di mafia, Amato è stato protagonista di quello che è stato chiamato “il carcere della speranza”. E’ riuscito a risolvere la rivolta dei detenuti di Porto Azzurro del 1987 senza cedimento dello Stato e senza versamento di sangue. Per la sua esperienza penitenziaria è stato invitato quale esperto da alcuni Paesi esteri.
Come direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria Amato ha trasformato profondamente l’universo carcerario nel senso della legalità e dell’umanità. Cessata l’attività al Dap, nel 1993 ha iniziato ad esercitare la professione di avvocato. Ha fondato, assieme agli onorevoli Tiziana Maiolo, Marco Boato, Alfredo Biondi, Alma Cappiello e Marco Taradash il Comitato per la difesa dei diritti dei cittadini (Codici), del quale è stato Presidente. Ha collaborato a varie riviste scientifiche ed a vari quotidiani nazionali, quali “La Repubblica” e “Il Messaggero”.
L’intervista di Nicolò Amato al “Secolo d’Italia”
Nel giugno del 2012 rilasciò un’intervista al nostro giornale, nella quale rivelò alcuni dettagli sconcertanti sulla trattativa Stato-Mafia.
“Con la mafia ci fu una tacita intesa”
di Luca Maurelli
«Sono moralmente indignato di quello che è accaduto in Italia in quegli anni. Sono arrabbiato, dispiaciuto, affranto, traumatizzato, ma non accuso nessuno, mi rivolgo ai giudici, ai commissari dell’Antimafia: giudicate voi. Io vi racconto fatti. Fatti oggettivamente inquietanti». Nicolò Amato i nomi li ha pronunciati, però. «Solo per documentare quello che ho raccontato, non tocca a me individuare le responsabilità», insiste l’ex magistrato, che per dieci anni, dall’83 al ’93, fu a capo delle carceri italiane, prima nell’infuocata stagione del terrorismo, poi in quella sanguinaria di Cosa Nostra, di Falcone, Borsellino, delle stragi di uomini e di opere d’arte. I nomi che oggi evocano trattative segrete con lo Stato – su cui finalmente si indaga – sono quelli di Scalfaro, Ciampi, Martelli, Mancino, Conso, di governi di centrosinistra che negli anni Novanta rincularono di fronte alla mafia, di figure istituzionali di alto profilo un po’ pavido, di ministri che ritennero di giocare in difesa, liberandosi di pedine ingombranti.
Da Scalfaro a Ciampi: quei nomi tirati in ballo
C’è tutto questo dietro la vicenda umana e professionale di Amato, ex direttore del Dap, silurato nel giugno ’93 al termine di un anno e passa di politiche penitenziarie durissime, successive alle prime stragi di mafia. Oggi Amato ha ricostruito quella stagione che lo vide prima protagonista, poi epurato, in un memoriale consegnato all’Antimafia e in un libro di imminente presentazione (il 3 luglio, a Roma), “I giorni del dolore, la notte della ragione”(Armando Editore). «Racconto quegli anni in cui posso affermare di aver attuato nei confronti della mafia la risposta carceraria più dura che la legislazione del tempo consentisse. Con il risultato di essere mandato via, senza un perché», racconta Amato.