“Sulle violenze in carcere va fatta chiarezza per restituire l’onore a chi ci lavora con onestà”
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Caro Direttore,
ho lavorato per quasi 40 anni nelle carceri, sono stato prima educatore e poi direttore penitenziario e dirigente generale, ho gestito i direttori penitenziari e gli uffici di intere regioni e gruppi di regioni. Innanzi ai miei occhi, senza filtri, sono passate migliaia di persone detenute, di tutte le etnie e nazionalità, di tutte le religioni, di tutte le idee politiche, di tutte le criminalità. Ho avuto alle mie dipendenze, quali importanti collaboratori, e talvolta contemporaneamente, ben quattro generali di brigata del Corpo degli Agenti di Custodia.
Ma mai, neanche una volta, ho tollerato qualunque violenza che fosse diretta su qualsiasi persona: che fosse un operatore penitenziario oppure un detenuto non faceva differenza. Certo, ho dovuto talvolta disporre che si vincessero delle resistenze aggressive rivolte al personale da parte di persone detenute, oppure che si intervenisse per dividere tra loro i ristretti coinvolti in risse furibonde, che rischiavano di tradursi in vere e proprie battaglie con morti e feriti.
Nella mia vita professionale ho organizzato e pianificato tantissime perquisizioni, ordinarie e straordinarie, anche di carceri grandi come interi e popolosi quartieri, eppure mai, ripeto mai, qualcuno si è fatto male o si è ferito, sia che si trattasse di poliziotti penitenziari oppure di persone detenute, mai ho ricevuto contestazioni di sorta, dalle stesse persone detenute, dai familiari, dai loro avvocati.
Ogni qualvolta, sia io che il personale operante alle mie dipendenze, venivamo, anche informalmente, a conoscenza, da parte dei ristretti, familiari, oppure altri operatori, anche volontari, di eventuali asserite violenze, subite da chicchessia, disponevo tempestivamente ogni necessario accertamento e approfondimento, informando prontamente le Autorità Giudiziarie, sia requirenti che della magistratura di sorveglianza, sempre assicurato che la polizia penitenziaria, nella sua funzione anche di polizia giudiziaria, avrebbe raccolto in modo ordinato e veloce ogni possibile indizio o elemento di prova disponibile. Superfluo dire che chiedevo l’immediato intervento delle autorità sanitarie, sempre e ripetuto nei giorni, perché i segni di alcune lesioni, conseguenti ad aggressioni e/o liti, possono comparire talvolta non nell’immediatezza della violenza subita ma dopo alcune ore o qualche tempo.
I detenuti che asserivano di essere stati aggrediti fisicamente venivano immediatamente fotografati, sul viso e sull’intero corpo, e da più angolazioni.
In tempi ancora lontani, da direttore penitenziario, allorquando le carceri non erano così fittamente video-sorvegliate e non esistevano le attuali moderne sale-regia, presidiate h. 24.00, come oggi le conosciamo, avevo fatto acquistare una telecamera digitale con la quale ordinavo che ogni operazione che potesse, anche lontanamente, rischiare di tradursi in un possibile scontro fisico, fosse perfettamente video-registrata e che fossero salvate e conservate le immagini, da mettere a disposizione delle competenti autorità, nonché per poter avviare le procedure disciplinari, al fine di poter contestare, nel rispetto delle norme penitenziarie e senza fraintendimenti, le eventuali infrazioni compiute dalle persone detenute che si fossero rese responsabili delle violenze. I miei erano banali e seriali metodi di lavoro. Ogni pianificazione però era necessaria e chiara e tracciabile doveva essere la linea di comando. Mai, ripeto mai, ho avuto problemi di sorta. Le persone detenute non sono stupide, né tantomeno le loro famiglie, i loro legali, le associazioni non governative che si occupano di carcere.
Comprenderete, perciò, la sofferenza e l’umiliazione che ho provato allorquando ho visto le immagini di quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che fu la mia prima sede di servizio nel lontano 1982, allorquando era ospitata in un antico convento, quello di San Francesco, oggi divenuta, guarda un po’, sede universitaria di lettere e filosofia.
Tutti gli operatori penitenziari degni di questo nome sono stati colpiti nel proprio onore.
Pertanto, seppure in quiescenza, da cittadino e da chi ha giurato solennemente sulla Costituzione Italiana (atto, in verità, che non credo sia soggetto a scadenze morali), esigo, pretendo, che si faccia chiarezza e che ogni responsabilità, a qualunque livello, sia perseguita nel rispetto delle leggi.
Quanto è accaduto mi richiama alla mente un libro di qualche anno fa, di Alessandro Portelli, intitolato “L’Ordine è già stato eseguito”, edizioni Feltrinelli, sulla decimazione operata dai tedeschi nei confronti di innocenti, durante l’occupazione di Roma.
Il Comando tedesco, nel suo dispaccio del 24 marzo del 1944, delle ore 22.55, informava che nel pomeriggio del giorno precedente “…elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della Polizia Tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti”.
Come reazione, il Comando tedesco “ordinò” che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani fossero fucilati. Questo ordine fu puntualmente eseguito.
Per il vero, si superò perfino il numero di 320 “ingiustiziati”, perché furono 335, e tra questi c’erano persone di ogni credo religioso, idea politica, sesso ed età, perfino nazionalità. Ovviamente non gli autori dell’attentato ai quali neanche fu, in verità, chiesto di presentarsi spontaneamente, ove evitare l’inaudita violenta rappresaglia da parte di uomini in uniforme.
Scrive Portelli che si istituì “…quella paurosa simmetria di azione e reazione, attentato e rappresaglia, delitto e castigo (con la sua geometrica relazione di uno a dieci)…eseguito l’ordine, non se ne parli più – mettiamoci una pietra sopra, o meglio, come fecero i nazisti, un cumulo di pozzolana nelle gallerie crollate, e uno strato di immondizia per coprire l’odore.”
Ecco, io l’odore di quello che si sente pervenire da Santa Maria C.V. lo percepisco ed è nauseabondo, forse sarà perché lì accanto c’è pure un centro di smaltimento dei rifiuti, a dimostrazione della sensibilità degli amministratori pubblici di volta in volta intervenuti nella scelta del sedime, ove aleggia un deus loci che assomiglia ad un demone.
Confido però nella Ministra Cartabia e nell’azione che, con il Presidente Draghi, vorrà porre in essere per restituire onore e prestigio a quanti, ogni giorno, rischiano anche la loro vita, come operatori penitenziari, all’interno delle carceri italiane, che non sono più un luogo sicuro dello Stato.
Enrico Sbriglia
Componente dell’Osservatorio Regionale Antimafia del Friuli Venezia Giulia
Presidente Onorario del CESP (Centro Europeo di Studi Penitenziari) www.cesp-europa.org