Il “Fatto” di Travaglio a caccia dell’antifascismo a “tripla A”. Ma c’entra più Conte che Durigon
Non resta che appellarci ad Antonio Padellaro. Non nella sua veste di editorialista del Fatto Quotidiano bensì in quella di autore de “Il gesto di Almirante e Berlinguer”, libro-retroscena sugli incontri segreti che i due leader tennero tra il 1978 e il 1979 per scambiarsi informazioni riservate con l’obiettivo di opporre un argine, da destra e da sinistra, al clima da guerra civile strisciante di quegli anni. Nell’Italia dove la storia – persino quella recente – è una sorvegliata speciale, non è facile accostare il nome del capo del Msi a quello del Pci. Padellaro l’ha fatto e gliene va reso merito. Per questo ci appelliamo a lui nella speranza che riesca a convincere Marco Travaglio a smettere di rincorrere la sinistra sul terreno della purezza antifascista pur di coltivare (è il nostro sospetto) la ridicola speranza di impupazzare Giuseppe Conte nelle improbabili vesti di federatore della gauche italienne.
Travaglio vuol far dimettere il sottosegretario
Se poi altro è il motivo, la vicenda – mano a dirlo – si fa tanto più grave quanto flaianamente meno seria. Seguire, per credere, la campagna contro il sottosegretario leghista Claudio Durigon, che Travaglio vorrebbe addirittura cacciare dal governo per aver osato di restituire al nome di Arnaldo Mussolini il parco di Latina (già Littoria), intitolato dal 2017 a Falcone e Borsellino. Il Direttore ne ha fatto quasi una questione personale: raccoglie firme on line per le dimissioni (già 159mila), conta i giorni di silenzio di Draghi (18 con quello di oggi) e ospita sull’argomento un’intervista al dì (quella odierna ad un indignatissimo don Ciotti) manco facesse una terapia. E non è finita, perché sul Fatto Quotidiano si agita pure Tomaso (con una “emme” fa più chic) Montanari, anche lui tra i coccolati del salotto di Lilly Gruber. Al critico d’arte nonché collezionista di posti che contano è andata di traverso la nomina di Andrea De Pasquale alla guida dell’Archivio centrale di Stato.
Montanari, luogocomunista “tutto d’un prezzo”
La sua colpa? Aver definito «statista» Pino Rauti. Da qui uno sproloquio senza né capo né coda utile solo a confermarci quel che già si sospettava: Montanari è un luogocomunista ubriaco di ideologia, ma non al punto da non riconoscere la strada giusta per spillare incarichi. Sembrano sagomate su di lui le parole di Alain Finkielkraut: «Occupano tutti i posti: quello, vantaggioso, del Maestro e quello, prestigioso, del Maledetto (…). Il dogma sono loro; la bestemmia pure. E per darsi arie da emarginati insultano urlando i loro rari avversari. In breve, coniugano senza vergogna l’euforia del potere con l’ebbrezza della sovversione». Figuriamoci perciò le convulsioni che lo avranno assalito leggendo nella stessa pagina del suo sproloquio la recensione di Furio Colombo del libro di Simon Levis Sullam (I fantasmi del fascismo). Vi si parla di personaggi come Federico Chabod, Piero Calamandrei, Luigi Russo e Alberto Moravia. Devastante (per Montanari) è la conclusione di Colombo: «L’Italia colta e borghese per alcuni momenti è stata tutta fascista».
L’HP: «Sul fascismo c’è una versione pubblica e una privata»
Ohibò, e ora come la mettiamo col divieto di revisionismo? E come possiamo continuare a dipingere il Ventennio come un’epoca segnata esclusivamente da olio di ricino e manganello? È evidente che sul giornale di Travaglio qualcuno bara: Montanari o Colombo? In realtà ha ragione Dino Cofrancesco quando scrive sull’Huffington Post che a distanza di oltre 70 anni sul fascismo si scontrano ancora un discorso pubblico e uno privato. Perché il primo risponde all’obbligo del «dover dire» mentre il secondo lascia la facoltà di «poter dire», ma solo tra poco intimi. Restando in tema, dobbiamo dire (giustamente) che Durigon ha sbagliato a non tener conto del sacrificio di due eroi dell’antimafia come Falcone e Borsellino. Ma solo privatamente possiamo ricordare che nessun governo ha avversato Cosa Nostra come quelli guidati da Mussolini.
Il buonsenso che manca a Travaglio
In tanta confusione, spiccano per misura le parole di Vincenzo Zaccheo, esponente della vecchia guardia missina, ma del tutto scevro da inutili nostalgismi. Latina l’ha già amministrata in anni non lontani e riprova ora a riconquistarla. C’è perciò da credergli quando sottolinea che il parco della discordia è oggi «un ricettacolo di immondizie». Più che ribattezzarlo, spiega, lo scopo è ripulirlo. E se sarà lui a vincere, il parco resterà intitolato ai due magistrati. Con l’aggiunta, ha annunciato, della dicitura «già Arnaldo Mussolini». Travaglio e don Ciotti trasaliranno, ma Peppone e don Camillo l’avrebbero risolta proprio così. Con un po’ di politica e tanto buonsenso. Esattamente quel che manca all’Italia di oggi.
Stalingrado sì, Littoria no?
Ps: venerdì scorso il nostro giornale ha riferito della soddisfazione con cui il Corriere della Sera ha dato notizia del sondaggio che ha visto il 60 per cento dei cittadini di Volgograd, in Russia, optare per il ritorno di quella città al nome di Stalingrado. Condividiamo: la storia non si cancella. E rilanciamo: ne facciamo uno simile anche tra gli abitanti di Latina-Littoria o è storia solo quella degli altri? Fiduciosi, attendiamo lumi da Travaglio e dall’intero magazzino Grandi Firme del Fatto Quotidiano. E che la saggezza del buon Padellaro li assista.