La trattativa Stato-mafia era un teorema “culturale” di chi vede dietro al Potere la presenza di un Mostro
Cosa penso della sentenza d’appello nel processo sulla “trattativa” Stato-mafia ? Delle assoluzioni di Subranni, Mori, De Donno e dell’Utri ? Non mi rifugio nelle “sentenze non si commentano”. Ho sempre pensato che la condanna degli ufficiali dei carabinieri e dello stesso Dell’Utri in primo grado, fosse manifestazione di un’idea, di un’ipotesi, di un teorema. “Culturale”; ideologico o quasi. Attrattivo e fascinoso, nella tendenza contemporanea del complotto; o di quella più remota di uno Stato doppio, i cui vertici impersonano un terzo livello: quello “vero”, mai scoperto, mandante dei delitti di mafia. La teoresi era ed è: il Potere è un Mostro, una Piovra dietro a tutto. C’è del marcio in Danimarca. Sempre.
Ma questo finora si è dimostrato essere non più di un giallo, di un romanzo poliziesco; di una visione o suggestione; non una verità giudiziaria e neppure storica. Uno storytelling ottimo anche per un’opera cinematografica come il film di Sabina Guzzanti. Alla quale, in uno scambio sereno di tweet, quando uscì nelle sale sette anni fa, dissi la mia: non era un documentario, non documentava; era pura arte, ottima fiction, in cui la Guzzanti e gli altri diedero prova di una recitazione di alto livello. Ma “altro”, rispetto ai fatti. Poco o nulla che potesse avere a che fare con la verità. Della quale, adesso, la Corte di Appello di Palermo – ma anche Fiammetta Borsellino che l’ha apprezzata – ha fornito un verdetto certificato in sede giudiziaria. Nessuno degli imputati di Stato era marcio. E lo Stato – i Carabinieri, le Istituzioni, la Politica – possono certo esserlo. Chi può non esserlo mai ? Ma non “per forza”, quasi come riflesso automatico di un certo modo di pensare. Stavolta no, dice una Corte. E chi è stato accusato ingiustamente ha avuto giustizia. E la Giustizia, con questa sentenza, ha difeso il suo onore messo in crisi da se stessa.
Dal suo “sistema” illuminato dalle rivelazioni di Palamara. Personalmente, ho sempre creduto che chi si mosse, ai vertici dello Stato, consentendo o sapendo di rapporti con l’Anti-Stato, lo avesse fatto per contenere il terrorismo mafioso, lo stragismo che era diventato strategico nella visione di Cosa Nostra. E ho sempre considerato Ragion di Stato, il mancato rinnovo, in quella stagione drammatica delle stragi mafiose con vittime innocenti – era il 1993 – del regime carcerario duro del 41 bis nei confronti di 140 detenuti dell’Ucciardone mirò ad evitare altri attentati. Ragion di Stato fu la decisione del ministro della Giustizia Giovanni Conso, un giurista galantuomo al di sopra di ogni sospetto, che si assunse la responsabilità di una “scelta personalissima”. Come, al di sopra di ogni sospetto, non poteva che essere il presidente del Consiglio di allora, che si chiamava Carlo Azeglio Ciampi. Se furono commessi errori, specie col senno del poi, è altra questione: storica o anche politica, persino giuridica. Ma non giudiziaria.
Per questo a me la sentenza appare “giusta”, se così si può dire. È stata “aiutata” dalla fase attuale di declinante giustizialismo nel Paese? Dei contrasti indicibili dentro le aree di appartenenza dei magistrati di ispirazione “giacobina” ? Dalla guerra emersa, sullo scenario di un Csm in grave crisi di credibilità, tra i “rivoluzionari” Davigo, Greco, Di Matteo, Ardita e viceversa ? Probabilmente sì. Non siamo al “si arresteranno tra loro” profetizzato da Francesco Cossiga, ma il climax in ascesa è quello. Spinto anche dagli imminenti referendum sulla giustizia. Sotto questo profilo, si può dire – senza nulla togliere alla forza della sentenza in sé – che il processo sulla trattativa si inserisce in un più largo processo “politico” e “storico” in movimento. Forse questo, rispetto al passato, ha soccorso il coraggio di un giudizio che isola la verità giudiziaria – non ci fu reato – da cento altre possibili “verità”. Da film mentali che ciascuno si può fare. Che – come ci insegna il Filosofo col Martello – non sono la Verità: sono interpretazioni. Soltanto interpretazioni. Non entrino nelle aule di giustizia.