La Cassazione: «Tassare le mance». Il maitre: «Ci guadagna solo lo Stato. Non funzionerà»

2 Ott 2021 10:27 - di Eleonora Guerra
mance

Non importa che siano «erogazioni liberali»: anche le mance vanno tassate. A stabilirlo è stata la Cassazione, con una sentenza destinata non solo a far discutere, ma – almeno in teoria – a modificare le abitudini degli italiani e dei lavoratori di settori come l’alberghiero e la ristorazione. «Le erogazioni liberali percepite dal lavoratore dipendente, in relazione alla propria attività lavorativa, tra cui le cosiddette mance, sono soggette a tassazione», hanno scritto i giudici nella sentenza, considerando le elargizioni dei clienti come vera e propria parte dello stipendio, sia perché il lavoratore sa di poterci contare, sia perché – ancora di più – si possono considerare diretta conseguenza del lavoro dipendente.

Il caso da cui scaturisce la sentenza

La sentenza prende le mosse dal caso del capo ricevimento di un hotel a 5 stelle sardo, che in un anno ha accumulato intorno agli 80mila euro di mance. Quei soldi, depositati dal lavoratore sul conto corrente, hanno attirato l’attenzione del fisco, che ne ha chiesto conto anche in termini di versamento dell’Irpef. Il lavoratore, quindi, si è rivolto alla Commissione tributaria regionale, che gli ha dato ragione con la motivazione che le mance, arrivando dai clienti e non dal datore di lavoro, non sono parte del reddito da lavoro dipendente. L’Agenzia delle Entrate, però, non si è arresa e così il caso è arrivato fino in Cassazione, concludendosi con un completo ribaltamento del pronunciamento della Commissione tributaria.

Ecco perché per la Cassazione bisogna tassare le mance

Per i supremi giudici, che si sono riferiti al Testo unico delle imposte sui redditi, infatti, «il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro». E ancora: «Sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro». A questo si aggiunge il fatto che le «donazioni» sono una fonte di guadagno «sulla cui percezione il dipendente può fare, per sua comune esperienza, ragionevole, se non certo affidamento».

Le perplessità del maitre: «Così non può funzionare»

Insomma, per gli ermellini non ci sono dubbi: sulle mance bisogna pagare le tasse. Assodato il principio, resta però il problema del come, visto che in Italia la gran parte delle “elargizioni liberali” non è tracciato, e del quanto. Sul quanto la Cassazione ha dato un’indicazione, portato l’esempio dei croupier, per i quali è prevista una deduzione forfettaria del 25%. Resta la questione del come. «Questo è un problema», ha spiegato al Messaggero, Alessandro Pipero, patron di Pipero a Roma e fondatore di “Noi di sala”, l’associazione dei più importanti maitre e sommelier d’Italia.

«Io – ha chiarito Pipero – penso proprio alla pratica quotidiana, al lavoro giornaliero. In un ristorante dove lo scontrino in media è di 100/200 euro a persona, il cliente, nel 99% dei casi, paga con carta di credito, quindi non c’è difficoltà. Però in una pizzeria, chi lascia la mancia non lo fa con la carta di credito, ma lo fa in contanti. E cosa fa il cameriere, prende quei contanti, va dal titolare e gli dice questi legalizziamoli?». «Per me, con la burocrazia che c’è nel nostro Paese questa misura, come si suol dire, dura da Pasqua a Pasquetta», ha proseguito il ristoratore, sottolineando che questa novità «va a scapito di dipendente, ristoratore, anche cliente». Insomma, «non ne trae vantaggio nessuno, solo lo Stato». Quindi, è l’avvertimento, o si cambiano le regole, partendo da una differente tassazione, e difficilmente si riuscirà a venirne a capo.

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