Crolla un’altra icona della sinistra: San Suu Kyi, Nobel per la Pace, condannata a 4 anni di carcere
Dopo Lula, anche Aung San Suu Kyi cade in disgrazia e si unisce ai tanti idoli della sinistra italiana adottati e poi scaricati dopo celebrazioni e cittadinanze onorarie regalate a destra e a manca. La donna, già Premio Nobel per la Pace, è stata condannata a 4 anni di carcere per istigazione al dissenso e violazione delle norme sul Covid previste nel quadro di una legge di calamità naturale. Il verdetto è il primo di una serie che potrebbe costarle il carcere a vita, sottolinea la Bbc.
Aung Suu Kyi ha tradito i diritti umani e la causa dei Rohingya
La 76enne Aung Suu Kyi è detenuta dal golpe dei generali lo scorso primo febbraio per reati comuni, ma il giudizio generale è che da quando è andata al potere non ha cambiato in nulla le sorti del suo Paese, anzi, le persecuzioni ai danni delle minoranze musulmane e Rohingya sono proseguite, mentre il Myanmar è scivolato sempre più nella crisi economica e sociale. Amnesty International denuncia un complotto del regime: “Le dure condanne inflitte ad Aung San Suu Kyi sulla base di false accuse sono l’ultimo esempio della volontà dei militari di eliminare ogni opposizione e soffocare le libertà in Birmania”, ha affermato l’organizzazione in un comunicato.
Negli anni scorsi, perfino gli U2, paladini dei diritti umani, avevano o formalmente chiesto al Dublin City Council di revocare la cittadinanza onoraria di Dublino ad Aung San Suu Kyi perché la leader del Myanmar non ha rispettato i diritti della popolazione del Rohingya, ed è venuta meno ai principi per cui ricevette il “Freedom of the city” di Dublino.
La speranza infranta sull’incapacità di risollevarfe il Myanmar
Fino a dieci anni fa, Aung San Suu Kyi era la grande speranza del Myanmar. La figlia del padre della nazione, il generale Aung San, era diventata dopo 15 anni di arresti domiciliari sui 21 complessivi, un’icona della pacifica resistenza democratica. Impeccabile, fino ad allora. Insignita di premi prestigiosi – il Nobel, il Sakharov, la medaglia presidenziale Usa della libertà -, aveva sempre impersonato la dignità al cospetto della brutale repressione, la ragione a fronte della più spietata persecuzione. E invece, era arrivata al punto di incarcerare perfino i giornalisti…
“In questi anni Suu Kyi è scesa a patti con l’esercito- scrive Open, il giornale on line diretto da Enrico Mentana – cercando di ottenere il suo sostegno, finendo per macchiare la propria credibilità come paladina della democrazia e dei diritti, anche a livello internazionale. Il suo governo è stato duramente criticato sia per aver perseguitato giornalisti e attivisti utilizzando leggi che rimandavano al suo passato coloniale, sia per aver difeso l’esercito dalle accuse di genocidio per la persecuzione della minoranza etnica musulmana dei Rohingya iniziata nel 2017. Nel 2019, Suu Kyi ha difeso il Myanmar dalle accuse di pulizia etnica un processo presso la Corte internazionale di giustizia. Anche se non le è stato ritirato il Nobel, questo le era costato il Premio Sakharov per i diritti umani.