Chi sbaglia non paga. Dalla Consulta “no” al quesito sulla responsabilità diretta dei magistrati
Cinque quesiti su sei, tra quelli afferenti al pianeta giustizia. Peccato che manchi il più «popolare», per usare il termine utilizzato dal presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza: quello relativo alla responsabilità civile diretta dei magistrati. In conferenza stampa, illustrando le motivazioni del “no” della Consulta all’ammissibilità del quesito, il presidente Giuliano Amato non ha smentito la sua fama di “dottor Sottile“. «Perché – ha spiegato – essendo fondamentalmente sempre stata la regola per i magistrati quella della responsabilità indiretta, la introduzione della responsabilità diretta rende il referendum più che abrogativo. Qui stiamo parlando della responsabilità dei magistrati per i quali la regola diversamente da altri funzionari pubblici era sempre stata della responsabilità indiretta».
Il latinorum di Amato sulla responsabilità
Chiaro, no? Che dire, è proprio vero che Casta non mangia Casta. Già, perché è indubbio che per la loro funzione, delicatissima e fondamentale, le toghe non possono finire nel tritacarne delle richieste di risarcimenti come ogni altro pubblico funzionario. Ma è altrettanto vero che il quesito esaminato dalla Consulta non riguarda l’errore ma l’orrore giudiziario, quello derivante da dolo o colpa grave. Un magistrato che intenzionalmente adotta la decisione sbagliata, non commette un errore ma compie un reato. Ci va invece molto vicino il magistrato che nella sua valutazione non rispetta i canoni della più elementare prudenza. Perché entrambi non dovrebbe risponderne direttamente? Quel che dice Amato è latinorum.
La Consulta e il referendum del 1987
L’attuale legge sulla responsabilità delle toghe è figlia diretta del caso Tortora. Fu sull’onda di quell’orrore che nel 1987 gli italiani, anche allora attraverso un referendum, chiesero a gran voce (circa l’80 per cento di “sì”) l’applicazione di un principio semplice ai limiti dell’ovvio: chi sbaglia, paga. Inutilmente, visto che il Parlamento rispose scaricando i costi dell’orrore giudiziario sulle spalle dei contribuenti e quindi, pro quota, anche su quelle di chi ne era rimasto vittima. La responsabilità indiretta funziona così. Anzi, non funziona. Per questo c’erano le firme per abrogarla. Ma il presidente della Consulta ha spiegato che quella diretta non è ammissibile perché c’è quella indiretta, il latinorum appunto. E così resta intonso e minaccioso il senso di impunità che pervade le toghe.
Ieri Tortora, oggi Palamara. Ma la Casta resta impunita
Come 35 anni fa non bastò il martirio di Enzo Tortora, non è bastato ora il “pentimento” di Luca Palamara, un’ex-potentissimo del sistema che ha documentato il degrado morale che avviluppa una buona parte della magistratura. Detto fuori dai denti, se oggi in Italia il biasimo sociale per chi delinque è praticamente pari a zero è anche perché l’ordine giudiziario è da tempo al di sotto di ogni sospetto. Sotto questo aspetto, il “no” della Consulta al quesito in questione è un’occasione persa. Lo riconosce persino l’ex-pm e oggi avvocato, Antonio Ingroia, che ha definito il quesito bocciato come «il più ragionevole». A suo giudizio, infatti, sarebbe servito «anche a ripristinare un rapporto tra cittadini e magistrati più consono al sentimento che oggi i cittadini hanno verso la magistratura, di diffidenza e sfiducia». Seppur a malincuore, questa volta ci tocca dargli ragione.