Lo sfogo di Pupi Avati: «Odio Bologna. Gianni Cavina ignorato perché non aveva tessere»
C’è voluto un amarissimo sfogo di Pupi Avati perché la città di Bologna si accorgesse dei funerali di Gianni Cavina, bolognese doc e attore amatissimo dal regista, scomparso il 26 marzo a 81 anni, dopo una lunga malattia. Alle esequie, che si sono svolte qualche giorno fa nella centrale chiesa del Sacro cuore con pochi partecipanti, infatti, non c’erano né rappresentanti né simboli del Comune. «Odio questa città», si è sfogato Avati, sottolineando che «la cosa che non viene sopportata è la non appartenenza». Insomma, la mancanza di tessere di partito, che a Bologna può voler dire una sola cosa: la tessera del Pd.
Lo sfogo di Pupi Avati: «Odio Bologna»
«È molto difficile fare questo discorso, pensare che Gianni non c’è più, che non ci saranno più nuovi ruoli da scrivere per lui nei miei prossimi film. Ma c’è una cosa ancora più triste…», ha detto Pupi Avati in chiesa, dando l’ultimo saluto a Cavina, non solo un collaboratore, ma l’amico di una vita. «Di solito la faccio (la comunione, ndr), ma sono nel peccato, sono profondamente rammaricato, provo addirittura odio nei riguardi della mia città, guardando questa chiesa», ha proseguito il regista, rivolgendosi all’officiante. «Ed è lo stesso odio che ho provato a Roma tre anni fa quando venne a mancare il socio di Gianni, Carlo Delle Piane, e la scena è stata simile», ha detto ancora Pupi Avati, facendo riferimento al fatto che la chiesa era pressoché vuota, nonostante Cavina, nel corso della sua lunga carriera, avesse «portato la bolognesità ovunque».
La giustificazione del sindaco Pd: «Un disguido…»
Successivamente, Avati è stato chiamato dal sindaco di Bologna, il dem Matteo Lepore, che si è scusato parlando di un «disguido». «Dice che c’è stato un disguido del cerimoniale. Che posso dire… bah… Gli ho chiesto: ma li hai redarguiti? E lui mi ha detto di sì e di stare tranquillo», ha poi commentato Avati con FQMagazine, il magazine del Fatto Quotidiano, al quale ha rilasciato un’intervista nella quale ha lasciato trasparire tutto il suo scetticismo sulla tesi dell’incidente.
Lo stupore per quella chiesa vuota
Pupi Avati ha citato il precedente di Carlo Delle Piane a Roma, altro grandissimo attore i cui funerali sono andati pressoché deserti, fatta eccezione per gli affetti e gli amici più cari. Tornando a Cavina, ha rivelato che «quando siamo arrivati davanti al Sacro Cuore con la macchina pensavamo addirittura di non trovare parcheggio». «Al contrario ho chiamato i presenti per chiedere se avevamo sbagliato chiesa», ha detto il regista, soffermandosi poi, sollecitato dal cronista, sul tema dell’appartenenza a una “parrocchia”.
Pupi Avati rivendica scelta di non iscriversi al Pd…
«Guarda che questa è una cosa che abbiamo scelto. Non è una svista, tipo: cazzo mi sono dimenticato di iscrivermi al Pd. Io ti giuro che dopo 57 anni non so per chi votava Cavina», ha detto il regista, chiarendo che «mentre in altri contesti magari era primaria l’appartenenza a un partito, a un’ideologia, a un mondo, per noi non lo è mai stato. Anche per Delle Piane non ho mai saputo per chi votasse. Ci andava sempre però a votare, ma io non gliel’ho mai chiesto e lui non me l’ha mai detto».
«La cosa che non sopportano è la non appartenenza»
«La cosa che non viene sopportata – ha quindi chiarito Pupi Avati – è la non appartenenza. La libertà di non essere collocato, etichettato, ricondotto a un certo contesto è imperdonabile. Mentre se tu dici di essere di sinistra o di destra susciti in qualche modo dignità e rispetto. Essere così distratti e astratti in questa società, e soprattutto in certi contesti così provinciali come a Bologna, dove l’appartenenza è l’unico strumento che ti permette di affrancarti, porta all’indifferenza altrui. Ci sono persone che hanno fatto carriera solo perché bravi e fedeli in tutte le situazioni e hanno sempre detto sì».
Il vizio antico delle “parrocchiette”
Si tratta di una questione antica, tanto che Avati ha citato un «episodio emblematico» avvenuto «tra il 1968 e il ’69». «A quell’epoca c’era un numero di registi emiliano romagnoli oltre la media. Poi Bellocchio aveva girato e prodotto I pugni in tasca uscendo dalle regole del cinema di allora, da Roma, da Cinecittà, dalle major. Il Comune di Bologna organizzò un congresso sul “cinema decentrato”. Invitarono autori da tutta Italia e noi, gli unici ad aver fatto del cinema a Bologna da indipendente non siamo stati chiamati. Già allora, come vedi – ha concluso Pupi Avati – c’era una… chiesa vuota».