Report e gli “scoop cimiteriali”: quando si vola con la fantasia si offende anche la memoria di Falcone
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Sulla storia criminale e in particolare sulla stragi – ormai è palese – “Report” rischia sempre più di farsi veicolo di “fake news” e non da oggi. Basti ricordare le puntate dedicate alla fantasiosa partecipazione di Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini all’assassinio di Piersanti Mattarella, smentita in via definitiva da tre sentenze della magistratura, nonché da tutti gli storici seri che si sono occupati del caso; oppure, la storia del milione di dollari che Licio Gelli avrebbe versato in un conto a disposizione sempre dello stesso Cavallini, una “porcheria” giudiziaria e giornalistica sputtanata addirittura in aula, nel corso del primo dibattimento, nel processo ora in secondo grado a carico dell’ex-Nar.
L’ultima, però, ha veramente del grottesco, tentando di attribuire a Stefano Delle Chiaie un ruolo nella progettazione e nell’esecuzione della Strage di Capaci. Ovviamente, in virtù del legame – di cui mai si è dimostrata l’esistenza – tra l’ex-leader di Avanguardia nazionale e l’immancabile Licio Gelli. È bene, quando si tratta di questi argomenti, partire sempre dalla cronologia. Licio Gelli, per esempio, fu estradato in Italia dalla Svizzera il 17 febbraio 1988, a pochi mesi di distanza dalla prima sentenza per la Strage di Bologna. Il “venerabile” stette in cella poche settimane – i giudici elvetici autorizzarono i colleghi italiani ad agire solo per i processi del Banco Ambrosiano, ritenendo infondate quelle relative all’eversione -, ma, da quel momento e fino alla sua morte, fu certamente l’uomo più controllato d’Italia. Polizia, Digos, Carabinieri, pubblici ministeri di una pletora di procure della Repubblica: ogni movimento e ogni contatto di Gelli fu monitorato minuziosamente e da forze investigative anche in concorrenza tra loro.
Pensare che la Mafia si rivolgesse a lui, per le proprie azioni criminali e terroristiche è pura follia: sarebbe stato più prudente e riservato – a quel punto – fare un bando pubblico, con tanto di inserzioni sulla stampa. Stesso discorso per Delle Chiaie, estradato dalla Bolivia esattamente un anno prima – il 27 marzo 1987 – e che, fuori e dentro dalle prigioni, rimase sotto processo fino al 5 luglio 1991 per la Strage di Piazza Fontana, da cui venne definitivamente assolto in quel giorno. Delle Chiaie, però, venne chiamato in causa anche per la Strage di Bologna e altro, sempre a causa di rivelazioni di “pentiti” – Vincenzo Vinciguerra e Angelo Izzo, tra i primi -, i quali vennero, però, sbugiardati dagli stessi magistrati che ne avevano ascoltato le “rivelazioni”. Quando fu assassinato Falcone, insomma, Delle Chiaie aveva la libertà di fare tante cose, forse, tranne che di compiere azioni criminali. Per altro, per voce degli stessi pubblici ministeri che ancora si occupano seriamente della morte di Falcone, è assolutamente inattendibile proprio la testimonianza che tentò di coinvolgere Delle Chiaie nell’assassinio dell’eroico magistrato. I
Infine, come già accaduto nel processo a carico di Paolo Bellini e, anzi, in misura ancora maggiore in questo caso, le ipotesi ventilate da “Report” hanno sempre la stessa caratteristica: è uno “scoop cimiteriale”, un rovistare tra le tombe, sperando di far aprire processi ai cadaveri. Il testimone che chiamò in causa Delle Chiaie, morto il 9 settembre 2019, è deceduto da anni e di Licio Gelli, ormai, non saranno rimaste nemmeno le ossa. Dunque, la domanda è d’obbligo: che obiettivo hanno, nelle redazioni e in certi settori della magistratura, coloro che tentano cronicamente di riscrivere la storia recente del Paese su queste fragili e ridicole basi? Perché si continua a cercare un collegamento – operativo e organico – tra la criminalità e l’eversione, per affermare faziose e bizzarre letture delle pagine più oscure della Repubblica. Per altro, dell’eversione “nera”, il cui unico legame accertato con realtà di criminalità comune fu quello tra alcuni Nar ed esponenti della Banda della Magliana, i più “seri” dei quali, però, come Renzo Danesi, hanno sempre chiarito trattarsi di rapporti d’amicizia personale, senza alcuna reale partecipazione dei gangster romani alle operazioni terroristiche del gruppo guidato da Fioravanti.
Per di più, in un contesto storico, mai indagato veramente dai magistrati, che, semmai, vide il terrorismo “rosso” cercare e stringere legami con tutte le organizzazioni mafiose: con la ’Ndrangheta, tramite parte del così detto “fronte delle carceri”; con la Camorra, a opera di Giovanni Senzani, il quale gestì l’operazione Ciro Cirillo e non solo coi boss napoletani; con la Mafia siciliana, come ammise, in un’intervista a un quotidiano greco, rimbalzata in Italia il 22 febbraio 1988, Maurizio Folini, armiere delle Br. Tutti rapporti, questi, che, a tutt’oggi, sono stati “insabbiati” nei grandi processi di terrorismo e nelle ricostruzioni storiche e giornalistiche, al punto da non ricordare mai nemmeno come il gran capo dell’ala sanguinaria della Mafia delle Stragi, a Palermo, si rifugiasse in via Bernini 12, nell’appartamento di un comunista dichiarato e figlio di un ex-parlamentare del Pci. E quando s’insiste troppo sulle fantasie, sorvolando sulle cose vere, sia nelle redazioni sia nelle sedi giudiziarie, la sensazione e il dubbio non possono essere che uno: non è che qualcuno intenda confondere le acque, temendo che verità inconfessabili riaffiorino dalla melma della storia?