Ucraina, da denazificare a genocidio: ecco come viene usata la propaganda bellica. Il parere del linguista
«Non c’è dubbio che parlare da parte di Putin di denazificazione dell’Ucraina e da parte di Zelensky di genocidio per le vittime provocate dai russi, rappresenta un ricorso a termini iperbolici ad uso propagandistico, a diverso titolo ovviamente». È quanto spiega il linguista Luca Serianni, accademico della Crusca, intervistato dall’AdnKronos.
Ucraina, Serianni: «Propaganda politica e bellica dei Paesi belligeranti»
«Non si può parlare politicamente di nazismo per descrivere la realtà ucraina e non si può parlare a rigore di genocidio per quanto riguarda la distruzione anche di interi villaggi e paesi da parte della Russia, in quanto non sembra ci si trovi davanti all’intenzione dichiarata di annullare un popolo intero in quanto tale, come fu per esempio nel caso del genocidio degli ebrei da parte della Germania nazista di Hitler», osserva Serianni.
«Si tratta di normali procedure di propaganda politica e bellica da parte dei Paesi belligeranti: rientrano nel meccanismo della propaganda bellica, che per sua natura forza i termini e i significati delle parole per intenti di parte. Si può parlare di strage di civili, non di genocidio, come non fu genocidio dei giapponesi da parte degli Usa – spiega ancora Serianni – gettare l’atomica sulle città nipponiche di Hiroshima e Nagasaki, al di là del numero di vittime provocato».
«Legittimo ricorrere a termini bellici per descrivere la “guerra” al Covid»
Per l’accademico della Crusca, è invece, «corretto l’uso in senso metaforico di parole che richiamano i termini bellici, per descrivere una situazione di pericolo o di risposta al pericolo, come è stato ed è tuttora nel contrasto al Covid. In tal senso, è del tutto legittimo parlare di “guerra”, “battaglia”, “resistenza”, “coprifuoco”, “assedio”, per descrivere la lotta contro il virus e la pandemia da esso determinata. La metafora bellica è sicuramente accettabile».
Del resto, prosegue Luca Serianni, «non dimentichiamo l’impatto fortissimo avuto dalla pandemia, specie nella sua prima fase; ora l’abbiamo forse un po’ dimenticato o accantonato, davanti all’insorgere di una guerra in senso proprio e letterale del termine. Nessun “mea culpa” deve essere recitato dai media», è l’ “assoluzione” finale del linguista.