Attanasio, la “verità” dei congolesi sull’agguato non convince carabinieri e magistrati italiani
È tutt’altro che chiaro come siano andate le cose quando il 21 febbraio 2021 un gruppo di banditi sbucò dalla foresta che fiancheggiava la Route nationale 2 sequestrando l’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista uccisi poi nella boscaglia circostante mentre venivano trascinati via.
I carabinieri del Ros che qualche giorno fa sono tornati dal Congo, dove erano andati su richiesta della Procura di Roma per acquisire ulteriori elementi sull’omicidio di Attanasio, Iacovacci e l’autista hanno avuto la possibilità di interrogare i sospetti dell’attentato che, apparentemente avevano già confessato tutto alle autorità congolesi, in particolare alla Procura militare di Kinsasha. E si sono convinti che le cose non stanno esattamente come era emerso in un primo momento.
Tornati in Italia con una quarantina di video realizzati nel corso delle indagini dalla polizia congolese – si vedono, fra l’altro, gli uomini della banda nel corso di una cena e durante l’arresto – i militari dei Ros hanno riversato i loro dubbi al pm romano Sergio Colaiocco. Che, al momento, non ha iscritto i nomi dei cinque sospettati nel registro degli indagati della Procura di Roma.
Aleggia sulla vicenda il sospetto che il Congo abbia voluto chiudere in fretta, troppo in fretta, un’attentato che certo non fa buona pubblicità al Paese e che ha attirato l’attenzione della Comunità internazionale soprattutto perché nel mirino della banda è finito l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, oltre al carabiniere Vittorio Iacovacci e al loro autista.
Ma cosa avrebbero detto i cinque mentre venivano interrogati?
Sostanzialmente si sarebbero difesi sostenendo che il loro obiettivo non era tanto l’ambasciatore in quanto tale, di cui, peraltro dicono di averne ignorato l’identità, quanto, piuttosto, il fatto di poter sequestrare qualche “bianco” che sarebbe transitato su quella strada pericolosissima, contrattando poi un riscatto da un milione di dollari. E che la faccenda sarebbe poi degenerata.
Il problema sarebbe nato quando i sette banditi avrebbero preteso un riscatto immediato dall’ambasciatore e dal resto del gruppo, riscatto quantificato in circa 50mila dollari da pagare immediatamente.
Il commando sarebbe stato composto da sette persone e capitanato da Amos Mutaka Kiduhaye, soprannominato «Aspirant», il quale avrebbe ideato, progettato è guidato l’azione finita in tragedia.
Kiduhaye è finora riuscito a sfuggire alla cattura. Ed è considerato, a tutti gli effetti, latitante.