Depistaggio su Borsellino, prescritti due poliziotti, assolto il terzo. Cade l’aggravante mafiosa per 2 agenti
Cade l’aggravante mafiosa per due dei tre poliziotti imputati del processo depistaggio Borsellino. Prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei mentre Michele Ribaudo è stato assolto.
E’ arrivata dopo quasi dieci ore la sentenza del processo.
La prescrizione salva, dunque, due dei tre poliziotti per i quali l’accusa aveva chiesto pene altissime.
I giudici del Tribunale di Caltanissetta erano chiamati a decidere se i tre poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Matteo, che facevano parte del ‘Gruppo Falcone e Borsellino‘ e che fu istituito dopo la strage di Via D’Amelio, avessero davvero indotto il finto pentito Vincenzo Scarantino a dire il falso e ad accusare ingiustamente degli innocenti, che poi furono condannati all’ergastolo per la strage in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta.
Per l’accusa c’è stato “un depistaggio gigantesco” e “inaudito” che “ha coperto alleanze mafiose di alto livello“. Mentre per la difesa era tutto un “castello di menzogne” che ha “ricoperto di schizzi di fango” tre poliziotti che “hanno servito la divisa con onore“.
I giudici, presieduti da Francesco D’Arrigo, si erano ritirati in Camera di consiglio alle 10.45 annunciando che ne sarebbero usciti “dopo le 18”, un orario molto indicativo per un processo durato quasi 4 anni e che si è sviluppato in poco meno di un centinaio di udienze.
La Procura di Caltanissetta aveva chiesto pene molto alte. Al termine della requisitoria il Procuratore capo in persona, Salvatore De Luca, con accanto i pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, subentrato da pochi mesi nel pool, aveva chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo, e nove anni e mezzo per gli altri due Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei.
Chiesta anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i tre imputati.
“Hanno avuto molteplici condotte e tutte estremamente gravi che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende – ha detto il pm Luciani rivolgendosi al Tribunale presieduto da Francesco D’Arrigo. – Avete ulteriori elementi che provano la sussistenza di questo elemento, la condotta che caratterizza l’illecito”.
“Non è una condotta illecita di passaggio ma che dal primo momento fino all’ultimo si ripete e si reitera – ha sottolineato. – E’ la pietra tombale al discorso che stiamo facendo”.
Per l’accusa “è dimostrato, in maniera assoluta, il protagonismo del dottor Mario Bo sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta”.
“C’era una fiduciarietà del rapporto tra i tre imputati e Arnaldo La Barbera, che rende concreta l’ipotesi che abbiano avuto la reale rappresentazione degli scopi sottesi delle condotte poste in essere”.
Per la Procura “ci sono elementi che dimostrano convergenze che certamente ci sono state nella ideazione della strage di via D’Amelio tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra e ambienti esterni ad essa”, spiega il pm Stefano Luciani, nel corso della requisitoria.
E parlando dell’agenda rossa del giudice Borsellino scomparsa, il magistrato ha detto: “La sparizione dell’agenda rossa, se sparizione c’e’ stata, non fu di interesse di Cosa Nostra ma da collegare a interessi estranei“.
Il Procuratore De Luca aveva anche spiegato che “tutti sapevano che Vincenzo Scarantino alla Guadagna era un personaggio delinquenziale di serie C. Parlare di questo gigantesco, inaudito, depistaggio solo per motivi di carriera del dottor La Barbera (l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo ndr) è la giustificazione aggiornata e rimodulata classica di Cosa Nostra“.
Per i pm “è assolutamente provato in questo processo, ma lo era già al processo ‘Borsellino quater‘ di un, a dir poco, anomalo coinvolgimento del Sisde nelle primissime attività di indagini che hanno riguardato la strage di via D’Amelio“.
“La genesi di questo coinvolgimento viene ricostruita – ha sostenuto la Procura – le dichiarazioni rese da questi soggetti sono interessati ad edulcorare la natura di questi rapporti, ma quello che emerge dalle carte è un dato non edulcorabile“.
Di tutt’altro avviso la difesa dei tre imputati. Nel corso delle arringhe difensive, poco prima che i giudici entrassero in camera di consiglio, hanno parlato di un “castello di menzogne” che sarebbe “crollato miseramente“, con “ricostruzioni romanzesche” e “accuse infamanti” e “illazioni” della Procura.
Il tutto “senza alcuna prova. Zero“. “Menzogne” che hanno provocato “schizzi di fango” e “una gogna mediatica” per i tre imputati, nel processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio ma anche “sui magistrati” che indagarono subito dopo la morte di Paolo Borsellino.
Con queste parole l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale del poliziotto Mario Bo, si era rivolto al Tribunale.
Panepinto ha elencato “le illazioni dell’accusa“, sottolineando che sì, che sulla strage di via D’Amelio c’è stato “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana“, come dice anche la Cassazione, “ma non ad opera dei tre poliziotti imputati o di magistrati e uomini dello Stato“, perché gli autori del depistaggio sarebbero stati, secondo la difesa, “tre balordi”, cioè i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta.
Per il difensore degli altri due imputati, i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, l’avvocato Giuseppe Seminara, Scarantino è un “calunniatore seriale“.
“Nel ricostruire i fatti ha tratto notizie dai giornali, dalle dichiarazioni di altri collaboratori, da esperienze di vita, dalla radio. Ha ritrattato nel ’95, nel ’98, nel 2002 e nel 2009. Ha ammesso di aver mentito e quindi è inattendibile“.
La difesa ha sempre respinto le ricostruzioni prospettate dall’accusa e dalle parti civili sui depistaggi nelle indagini sulla morte di Paolo Borsellino e della sua scorta.
Ma non è stata neanche d’accordo con le conclusioni del processo Borsellino quater per cui Vincenzo Scarantino, il falso pentito della Guadagna, è stato indotto a mentire.
“Non possiamo accettare una conclusione del genere – ha detto il legale Seminara – perché si danno più opzioni, ma al contempo non si dice chi avrebbe indotto lo Scarantino“.
Parlando del falso pentito lo scorso 9 giugno aveva affermato che lo stesso, pur avendo la “terza elementare” è un “furbo“.
Perché “piano piano comincia a elaborare e a strutturarsi rispetto a quello che gli viene prospettato e comincia a mentire usando le informazioni che aveva a disposizione. Questi imputati, incensurati, hanno una dignità e una loro storia che comprende tantissime azioni svolte per contrastare la criminalità organizzata“.
E poi ancora ha aggiunto: “Questo è un processo che non può non tenere conto del fallimento di un sistema. Noi, qui, dobbiamo necessariamente prendere atto che in quegli anni, per questioni ambientali, storiche, politiche, il sistema di controllo della prova è miseramente fallito“.
Secondo il legale “questo processo, con l’assenza di tantissimi soggetti che sono morti, ha certamente arrecato un nocumento ai miei assistiti. Questo è un processo che non può non tenere conto dei fallimenti del sistema di controllo della prova. Con anomalie attribuibili ai magistrati“.
“Dobbiamo avere il coraggio di trovare Scarantino ‘inutilizzabile’ in tutte le sue esternazioni, talmente piene di bugie, di farneticazioni che non è possibile ritenerlo attendibile. Di fronte a dieci versioni diverse di Scarantino, come si fa a scegliere quella che va contro i nostri imputati? È una forzatura costante”, ha detto.
“Qua siamo di fronte a due soggetti incensurati, i poliziotti Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, e un calunniatore seriale, Vincenzo Scarantino. L’induzione la possiamo mettere in discussione, ma sul fatto che Scarantino è un calunniatore non ci sono dubbi“, ha proseguito durante l’arringa.
“Scarantino nel ricostruire i fatti ha tratto notizie da tutto – ha aggiunto il penalista – dai giornali, dalle dichiarazioni di altri collaboratori, da esperienze di vita, dalla radio. Quante volte ha ritrattato? Nel 1995, nel 1998, nel 2002 e infine nel 2009. Noi dobbiamo ammettere che per quattro volte ha ritrattato, ammettendo di avere mentito. E quindi, come io lo definisco, è “inutilizzabile”, ma mi basta dire inattendibile”.
La storia della strage di via D’Amelio ha visto ben cinque processi in trent’anni, che diventano quattordici processi se si contano anche gli appelli e le decisioni della Corte di Cassazione. Oltre trenta giudici si sono espressi su quanto accaduto alle 16.58 del 19 luglio del 1992 in via D’Amelio. Sono state emesse condanne, anche all’ergastolo, assoluzioni, e pure une revisione per alcune condanne a vita a innocenti che nulla c’entravano con la strage.