Covid, società più violenta. Ecco i disturbi più frequenti: aggressività e irritabilità. Lo studio
Non solo danni economici e problemi di salute a lungo termine per chi ha avuto Covid-19. La pandemia rischia di lasciarci in eredità anche una società più violenta, caratterizzata da una maggiore aggressività individuale. «Stiamo approfondendo con una ricerca ad hoc il fenomeno. E i primi dati indicano che senza dubbio nel post Covid nella società si osserva una maggiore violenza». Lo anticipa all’Adnkronos Salute Armando Piccinni, direttore dell’Osservatorio sulla salute mentale in Italia e presidente della Fondazione Brf per la ricerca in psichiatria e neuroscienze, in base ai primi risultati di uno studio in corso sul Long Covid, messo a punto dalla Fondazione.
Covid, lo studio: società più violente nel post pandemia
«I primi dati indicano che l’aggressività fuori casa e all’interno della famiglia cresce notevolmente. Nella nostra ricerca stiamo cercando di evidenziare quali sono gli elementi che permangono maggiormente nei pazienti dopo il Covid. E abbiamo scoperto che nervosismo, aggressività, irritabilità sono tra gli items più evidenziati nel post infezione, sono alla “vetta” dei disturbi post Covid. Un elemento individuale che si ripercuote nel sociale», dice Piccinni, ricordando che come esperti italiani, nei mesi scorsi, «ci siamo appellati in diversi modi alle istituzioni. Ben 500 neuroscienziati italiani hanno firmato una lettera a Draghi e Speranza, rimasta inascoltata».
L’Osservatorio salute mentale: i centri di igiene mentale sono sottodimensionati
«Abbiamo chiesto in tutti i modi che ci fossero provvedimenti per cercare di potenziare i centri di igiene mentale che ci sono, ma sono sottodimensionati, hanno pochi medici e pochissime possibilità di intervento», evidenzia Piccinni.
La sanità della salute mentale, in particolare in questa difficile fase storica in cui questo settore “ha pagato un caro prezzo”, aggiunge il direttore dell’Osservatorio sulla salute mentale in Italia, necessita di “attenzione e investimenti”, ma soprattutto di un forte miglioramento «organizzativo e culturale. Non può essere, infatti, chiusa in un comparto. L’assistenza per la salute mentale deve essere una rete a cui debbono collaborare tutti, costituita da: assistenti sociali, medici di famiglia, pediatri di libera scelta, farmacisti. Ma anche figure sociali di riferimento non legate all’assistenza socio-sanitaria, come ad esempio i parroci che hanno spesso una chiara idea della situazione del quartiere in cui operano e che possono segnalare e sostenere. Ben vengano, in quest’ottica, accordi istituzionalmente regolati con i diversi operatori socio-sanitari del territorio», conclude Piccinni.