C’è chi vuole portare la campagna elettorale a scuola: l’appello un po’ sospetto dalle colonne de La Stampa

19 Set 2022 12:06 - di Federica Parbuoni
scuola

Con un lungo articolo su La Stampa, lo scrittore Paolo Di Paolo esorta a tornare a parlare di politica a scuola. Una necessità quanto mai impellente, sostiene, in questa ultima settimana di campagna elettorale, nella quale molti giovani hanno bisogno di supporto in quello che sarà il loro primo appuntamento col voto. Un supporto che, secondo l’autore, non può venire dalle famiglie e deve venire dai docenti.

L’appello a parlare di politica a scuola

Secondo lo scrittore, la «prudenza» che si cela dietro la frase secondo cui «è meglio non parlare di politica a scuola» comporta «una limitazione: le occasioni in cui, in un’aula, entra il discorso politico sono poche e, nel caso, determinate da insegnanti particolarmente appassionati e per certi versi meno cauti. Se le occasioni sono poche fra i banchi, sono poche anche altrove. Spesso, del tutto assenti».

«Non parlare di politica a scuola vuol dire, per moltissimi ragazzi e ragazze, non parlarne da nessuna parte. Non parlarne con nessuno. Crescere negli Anni 20 del XXI secolo non comporta, come in altre stagioni di storia italiana, l’opportunità, anche molto condizionante, di “respirare” il discorso politico dappertutto, di vederlo filtrare dalla dimensione collettiva e infiltrare il privato», scrive Di Paolo, spiegando che «nella settimana che manca al 25 settembre non c’è tempo per le premesse e le analisi approfondite». Invece, «c’è la necessità di offrire alla fascia più giovane dell’elettorato un’area di salvataggio rapido: dal disorientamento, dall’indifferenza laddove ha attecchito, dal silenzio degli adulti, dalla loro stessa indifferenza e, più concretamente, dalla tentazione dell’astensione».

La scuola come «antidoto» al «qualunquismo cinico» delle famiglie

Quale sia il problema che i giovani incontrano in questi «Anni 20 del XXI secolo», lo scrittore lo chiarisce andando «al concreto: siamo a cena, in sottofondo le parole di un telegiornale, mamma e papà masticano e bofonchiano qualcosa, quasi certamente di sprezzante nei confronti di questa o quella figura di leader, se non dell’intera classe politica. Il discorso come può attivarsi? Langue, si spegne. Il disincanto dei padri è piovuto per anni nelle minestre dei figli, si è inacidito, è diventato un qualunquismo cinico e inerte. Domattina il ragazzo raggiunge la sua scuola, e solo lì potrebbe trovare il contravveleno, l’antidoto».

«Il ragazzo che torna a casa forte del suo contravveleno potrebbe svelenire anche i suoi parenti stretti, potrebbe riallenarli, lui, a una convinzione che non dovrebbe ammettere deroghe. E cioè che la politica non è una questione estetica, non è solo un modo di pensarsi, un modo di vedere il mondo», prosegue lo scrittore, per il quale dunque la scuola e questi docenti «appassionati e meno cauti» dovrebbero supplire a un ruolo educativo che queste nostre famiglie così inadeguate non riescono più a svolgere. Si tratta di un ragionamento che mostra diverse debolezze.

Il confine tra invito alla riflessione e indottrinamento

La prima che viene in mente è che quei docenti sono per lo più genitori a loro volta e non è chiaro se esista una discriminante tra i genitori che insegnano, e che quindi sono capaci di ragionare di politica, magari poi solo in aula, e quelli che non insegnano, e che quindi per lo più sanno solo bofonchiare. La seconda è che non è vero che i ragazzi non hanno occasione di fruire politica e di parlarne. Possono farlo tra di loro, con i molti giovani ancora impegnati politicamente; possono farlo sui social, dove sono spesso molti attivi e anche molto critici; possono farlo autonomamente, recandosi in edicola, cercando le notizie online, ascoltando direttamente le proposte delle varie forze politiche in un’epoca caratterizzata dalla disintermediazione.

Se la scuola diventa terreno di propaganda

Certo, bisogna crederci in questi ragazzi, pensare che abbiano interesse e capacità critiche, augurarsi che sappiano distinguere tra proposta e propaganda, ritenere che non siano vasi vuoti che si possono riempire a piacimento di lamentele antipolitiche sorbite con la zuppa in famiglia e di elevate visioni del futuro e del mondo offerte a scuola da insegnanti illuminati. Bisogna, insomma, svincolarsi dalla tentazione dell’indottrinamento, che poi è il convitato di pietra di molti ragionamenti sulla politica a scuola. Scrive Di Paolo che esiste un «fraintendimento di natura lessicale: parlare di politica non significa fare propaganda». Epperò, spesso sono emersi negli anni casi di conversazioni politiche a scuola proprio di questa natura che, non a caso, hanno fatto discutere sulla loro opportunità.

Per questo, ritirare fuori questo discorso nell’ultima settimana di campagna elettorale non ha il sapore di un appello al sostegno della partecipazione dei giovani, ma di una chiamata agli insegnanti o, forse, a certi insegnanti, a sostituirsi a queste scellerate famiglie, non facendosi remore a entrare nell’agone della competizione elettorale. Che non si sa mai Elodie e Chiara Ferragni non bastassero.

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