L’imbarazzo della Cgil nel chiedere il voto per il Pd. Gli operai si ricordano del jobs act e della legge Fornero
Il prossimo appuntamento elettorale offre uno spaccato interessante sugli orientamenti politici del mondo del lavoro. Mentre vengono meno le appartenenze “di classe”, a spezzarsi è la storica “cinghia di trasmissione”, che aveva fatto le fortune della sinistra comunista.
Il fenomeno non è nuovo. Ma oggi è esplicito e reso manifesto anche dai vertici della Cgil. A darne notizia sono stati molti organi d’informazione, con un ampio corollario di dichiarazioni e di prese d’atto, al punto da arrivare a parlare di autentico “livore” da parte del mondo del lavoro nei confronti del Pd. Da Nord a Sud la rottura appare insanabile.
Il problema maggiore nel rapporto con gli operai è che il Pd – ha dichiarato Edi Lazzi, segretario della Fiom subalpina – ormai da anni non li rappresenta più. Il tentativo di recupero degli ultimi giorni non ha dato grandi risultati. Come ha scritto “La Stampa” in occasione della festa della Fiom di Torino il consenso operaio sembra aver preso altre strade, magari svoltando a destra, oppure rifugiandosi nell’ astensionismo. Non sembra neppure più funzionare il tormentone sui rischi per la democrazia. Di fronte alla sinistra votata alla “governabilità” e – di fatto – al servizio dei “poteri forti” l’imbarazzo è grande. Al punto che molti quadri sindacali dichiarano senza remore: “C’è chi dice che dovremmo anche convincere gli operai che vanno accettate le scelte del governo della sinistra , se no arrivano i fascisti. I quali, per parte loro, promettono la pensione per tutti dopo 41 anni di lavoro”.
Alla festa della Cgil di Forlì, parlando con i cronisti, il segretario regionale Massimo Bussandri si è sfogato: “Se vado in assemblea e dico ai lavoratori di votare contro la destra mi chiedono che cosa ha fatto la sinistra negli ultimi 20 anni. E la risposta è: il jobs act e la riforma Fornero”.
C’è anche chi non ha gradito la scelta di Susanna Camusso a candidarsi nelle liste del Pd. Una scelta opportunista per molti, che ha anche creato più di un imbarazzo sul territorio. Al punto da fare spostare la manifestazione della Cgil per il Mezzogiorno, programmata a Napoli, a Bari, per evitare che la manifestazione potesse trasformarsi in un veicolo elettorale per l’ex segretaria generale.
Non c’è del resto candidatura “identitaria” che tenga, laddove il partito oggi di Letta è accusato di essere stato quello di Renzi, del jobs act, e della legge Fornero, che ha tenuto le persone in fabbrica per cinque, sei, sette anni in più prima della pensione.
La rottura della “cinghia di trasmissione” è allora “di base” (dove i lavoratori rifiutano le vecchie “appartenenze”) e conseguentemente anche “di vertice” (dove a dettare la linea è il quieto vivere camuffato da realismo post ideologico). Nessun endorsement allora verso il Pd e nessun appello contro possibili “derive reazionarie”. Parola di Maurizio Landini, segretario della Cgil, che, chiudendo a Bari la Conferenza sul Mezzogiorno, ha dichiarato, senza mezzi termini, di non temere alcun esito elettorale: “Rispetteremo qualunque risultato perché quando la gente va a votare è sempre un gesto di democrazia”. A vincere più che le storiche appartenenze di classe è il pragmatismo, il giudizio sulle cose più che sulle appartenenze storiche. In sintesi: se vincerà la Meloni, ci siederemo al tavolo del governo e discuteremo.
Nel rovesciamento delle “cinghie di trasmissione” crescono evidentemente le responsabilità per il centrodestra, chiamato a dare risposte concrete alle domande del mondo del lavoro. Il primo tema è quello del recupero del potere d’acquisto dei salari a fronte di un’inflazione galoppante e della crescita delle tariffe energetiche. A seguire una più organica riforma pensionistica, la quale, rispetto alla Fornero, sappia declinare concretamente età pensionabile e lavori usuranti; un rispetto delle normative contrattuali, con particolare riguardo alle giovani generazioni e al mai risolto rapporto tra formazione, occupazione e remunerazione; efficaci politiche per la famiglia; la ripresa della cosiddetta “edilizia popolare” (secondo Federcasa e Federcostruzioni l’attuale struttura del patrimonio residenziale pubblico non è sufficiente, laddove servirebbero almeno altri 300.000 alloggi per coprire il fabbisogno nazionale e – in generale – un’opera massiva d’intervento sul patrimonio esistente).
I temi sul tappeto – come si vede – sono tanti, tutti molti concreti e diretti. Intorno ad essi non è impossibile ipotizzare di costruire una nuova alleanza sociale. Senza fumisterie ideologiche però, ma con chiare priorità e nettezza programmatica. Anche qui – dopo la rottura delle vecchie appartenenze ideologiche (le mitiche “cinghie di trasmissione” della sinistra) e dopo i fallimentari anni della “sinistra di governo” – una nuova stagione politica e sociale si profila all’orizzonte. Importante è non perdere la bussola delle priorità e le ragioni di fondo di una discontinuità politico-amministrativa che deve mirare a risanare la scissione tra la politica istituzionale ed il popolo italiano, evitando di ripetere gli errori del passato. Quelli che oggi rendono insanabile la spaccatura tra mondo del lavoro e sinistra.