A 50 anni dalla morte Ezra Pound parla ancora ai contemporanei dei vizi del potere finanziario
Il 1° novembre 1972 Ezra Pound muore a Venezia. La sua vita – come ha scritto Massimo Bacigalupo, grande studioso dell’opera poundiana – “è di per sé un poema, vissuto e scritto da lui e da altri”. Una vita ed un’opera segnate da apparenti antinomie, che continuano – non a caso – a interessare studiosi e lettori. A cinquant’anni dalla morte di Pound arrivano nuove traduzioni (Patrizia Valduga, “Canti I-VII”, Mondadori), letture (Luca Gallesi, “I Cantos di Ezra Pound. Una guida”, Ares) e ristampe (“Canti postumi”, Mondadori). Merano ricorda il poeta con la mostra “Make It New. Pound nel vortice delle Avanguardie” (Palazzo Mamming, fino al 6 gennaio).
Se è indubbio che un poeta della grandezza di Pound vada riconsegnato alla complessità del suo percorso e della sua creazione poetica, non si può non dire che egli è comunque anche nel suo impegno politico e sociale, del quale è intessuta non solo la sua poesia ma anche la sua produzione saggistica.
Il suo impegno intellettuale lo colloca all’interno di quel filone culturale “terzista”, operante in Gran Bretagna, intorno alla rivista “The New Age”, diretta da Alfred R. Orage, critico sia nei confronti del marxismo che del capitalismo. L’impegno di Pound nasce da questa “visione alternativa”, che – come molti altri intellettuali del primo Novecento – egli vide nel fascismo e che lo portò ad ammirare l’Italia e Mussolini.
Lo fece a suo modo, con la sua sensibilità, ma anche con il suo radicalismo culturale, in particolare sui grandi temi della finanza, dell’usura, del denaro (al punto da vedere pubblicate, nel 1937, dalla paludata rivista “Rassegna monetaria”, le sue tesi sull’economia ortologica), costruendo affinità inusuali, come quella tra Jefferson e Mussolini, fino a recuperare l’essenza della sua americanità nell’Italia del Ventennio.
Poesia ed economia: un apparente ossimoro, tanto paiono inconciliabili i domini della fantasia con quelli della produzione materiale, del rigore contabile, del denaro. Eppure Pound è questo: un cocktail ardente in cui la polemica antieconomicistica si miscela con i suoi versi poetici, tra geroglifici egizi ed ideogrammi cinesi che scivolano accanto alle citazioni dotte, l’amore per l’Italia che si coniuga con la nostalgia dell’America profonda, quella di Jefferson e di Adams.
Il grande affresco dei Cantos, il suo poema scritto dal 1915 al 1962, stordisce per dimensioni e complessità. Facile l’accostamento con la Commedia dantesca. Laddove però la visione teologica viene declinata modernamente con i richiami “Contro l’usura” e la contemporaneità più lacerante.
L’adesione di Pound al fascismo sta tutta in questo perimetro: fu un’adesione non formale, ma vissuta, interiorizzata, al punto che, nel 1940, allo scoppio della guerra, quando il poeta avrebbe potuto abbandonare l’Italia per ritornare in America o trovare rifugio in qualche Paese neutrale, egli restò, impegnandosi direttamente nella propaganda dalla Radio, con il programma in lingua inglese “Europe calling, Ezra Pound speaking”, attraverso il quale accusava gli angloamericani e la finanza internazionale di avere voluto la guerra contro i popoli dell’antiusura.
Il suo impegno non venne meno durante la Repubblica Sociale Italiana, l’estrema ridotta del fascismo, durante la quale Pound intensificò i suoi interventi giornalistici. Per tutto questo pagò con la dura reclusione in un campo di prigionia presso Pisa, dove scrisse gli undici Canti pisani, e l’internamento in un ospedale psichiatrico statunitense, dove rimase fino al maggio 1958, dopo che varie petizioni ne avevano chiesto la liberazione.
Tutte queste vicende, i drammi, le speranze, le illusioni spezzate di quegli anni, che tanta parte hanno nelle sue opere, possono essere risolte, come tenta di fare certa critica imbarazzata, nel non dar luogo a procedere per manifesta incapacità politica non solo di Pound ma di larga parte della cultura del Novecento ? E’ legittima questa “scissione” ? E per Pound non si rischia, in questo modo, di compiere un’operazione anticulturale, tutta rinchiusa in una visione estetizzante della sua opera (geniale creativo) a scapito del contenuto dei Cantos e della sua più ampia produzione letteraria e giornalistica di taglio politico-sociale ?
In realtà quella di Pound è insieme una rivoluzione poetica, economica ed antropologica, nella misura in cui egli denuncia come il centro del vivere, dei singoli e dei popoli, si sia spostato dal municipio, dal castello, dal lavoro reale al potere finanziario, alla centralità della Banca, ai titoli di carta. E’ per lo spostamento di questo baricentro che ancora oggi l’umanità è costretta a piangere la precarietà delle crisi finanziarie e di bilancio, dimenticandosi problemi ben più grandi ed emergenze ben più drammatiche, causa/effetto di squilibri di portata internazionale, entro i quali vengono risucchiati i destini dei popoli, gli squilibri produttivi, la fame, la crisi delle famiglie.
Al fondo dei Cantos domina non solo l’economia ma la sua impersonalità frantumatrice del mondo moderno, forse perciò – come ha scritto Giano Accame (Ezra Pound economista, 1995) – “sono l’unico poema che non sia costruito intorno ad un eroe, o ad un gruppo di eroi ed alla loro storia, per giocare piuttosto, come in un caleidoscopio, intorno a frammenti d’immagini”. Proprio per queste “visioni”, Pound, a cinquant’anni dalla sua scomparsa, riesce a parlare ancora alla nostra contemporaneità, fuori da ogni gabbia, al di là di ogni schematismo intellettuale, consegnandolo all’immortalità dei classici.