Il Dante umano di Pupi Avati piace e convince come il suo Medioevo senza fronzoli
Finalmente un film che apre uno squarcio, colto e luminoso, sull’immaginario italiano. E’ “Dante” di Pupi Avati. Un film che ti coglie di sorpresa, piacevolmente, perché è tutto giocato sul dualismo. Da una parte una quotidianità scarna e materiale e dall’altro la spiritualità che promana dall’opera dantesca. Dualismo anche nei protagonisti: a muoversi più spesso sulla scena è Boccaccio-Castellitto in viaggio verso Ravenna per portare dieci fiorini di risarcimento alla figlia monaca di Dante. Il sommo poeta invece lo vediamo giovane (Alessandro Sperduti) e poi afflitto dalle febbri malariche sul letto di morte.
L’ambientazione medievale del film “Dante”
Tutto l’affresco filmico è reso più credibile dall’ambientazione: solide e ruvide mura medievali, prospettive che sembrano ferme nel tempo scelte tra Umbria, Lazio e Emilia-Romagna. E ancora icone religiose, battaglie prive di pathos che conducono solo a morte e distruzione, un pauperismo che trasuda da vesti informi, visi sporchi, capelli spettinati. E la malattia sempre in agguato e sempre presente, sottolineata dalle mani fasciate di Boccaccio afflitto dalla scabbia. Insomma il Medioevo di Pupi Avati non ha nulla del romanticismo alla Hugo, nulla del mito cavalleresco di sir Walter Scott, e ancora zero delle atmosfere fantasy tolkieniane. E doveva essere proprio così, quell’età di mezzo che pone le basi della modernità. E non a caso il regista si è avvalso, anche, della consulenza di storici di vaglia come Franco Cardini.
La scelta di un Dante umano troppo umano
E’ un medioevo italiano e realistico. Illuminato dai versi di un poeta inquieto, misterioso, alla ricerca perenne di Dio. Tutte le incrostazioni dei posteri sul personaggio Dante sono sgomberate dal regista, che sceglie un giovane Dante che ispira tenerezza, che segue Beatrice e fin da subito è preso da amore per la fanciulla che “tanto gentile e tanto onesta pare”. Dante tra l’altro non era un bell’uomo. Boccaccio lo descrive così: “Fu […] questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito in quell’abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso“. Nel film il giovane Dante colpisce soprattutto per lo sguardo. Grazie al quale si intuiscono l’attrazione per la poesia, l’attitudine visionaria, l’energia creatrice (dopo la sua morte il melo non dà più frutti). Il regista insiste tuttavia sul Dante umano, forse troppo umano. Al punto da mostrarlo nell’atto di defecare prima della battaglia di Campaldino alla quale partecipò l’11 giugno del 1289.
I commenti dissacranti di alcuni studenti
Se si vanno a vedere i mediocri e dissacranti commenti degli studenti che hanno visto il film portati s’immagina dai loro professori non a caso uno scrive: “Ho sempre sognato di vedere Dante cacare”. E’ la vendetta di chi non arriva a capire e forse non ci arriverà mai e in ogni caso nel film di Pupi Avati c’è anche questo. La possibilità dello studente somaro di prendersi la rivincita sulla oscura lingua dantesca. C’è nel film, in definitiva, l’uomo Dante in tutta la sua carnalità e c’è l’età medievale nella sua corporalità privata di ogni velame letterario e fascinoso.
L’opposizione tra materia e spirito
Ma torniamo al punto iniziale, all’idea attorno alla quale il film ruota: l’opposizione tra materia e spirito. E più nello specifico tra amore carnale e amore spirituale. L’amore carnale è sempre insoddisfacente, se non addirittura fonte di ribrezzo come nel caso dell’accoppiamento nuziale tra la giovane sposa Beatrice e il marito Simone dei Bardi molto più anziano di lei. L’amore spirituale è quello che ispira i versi immortali e che dà luce alle parole al punto da fare della Commedia (che proprio Boccaccio definì Divina) un intrigo di simboli, un’opera unica dove l’impianto teologico e teatrale camminano insieme di pari passo. Un rebus per i posteri affaticati nel salire dal senso letterale a quello anagogico. E l’amore spirituale è per Beatrice, l’amore della Vita Nova, è l’amore che move il sole e l’altre stelle. E che trafigge e commuove con la sua bellezza. Come gli affreschi di sant’Apollinare che contempliamo nelle scene finali del film.