Il racconto del vicecomandante Azov tornato libero: «In isolamento per quattro mesi»

13 Ott 2022 10:46 - di Redazione
Azov

«Quattro mesi senza parlare con nessuno, senza poter uscire dalla cella minuscola, senza poter spegnere la fottuta luce sempre accesa sul soffitto che mi faceva diventare pazzo ». A parlare in un’intervista a Repubblica è  Bohdan Krotevyc, vicecomandante del Reggimento Azov, che ha combattuto nell’acciaieria Azovstal di Mariupol.

Parla il vicecomandante Azov

Krotevyc, 29 anni, nome di battaglia: Taurus, ora è tornato a Kiev. È l’unico degli Azov in posizioni apicali cui è stato permesso di lasciare Istanbul, dopo lo scambio di prigionieri di fine settembre. «Fosse stato per me, non mi sarei consegnato ». Il 20 maggio è il giorno della resa. «Non ci siamo arresi – puntualizza – abbiamo accettato di uscire dall’Azovstal, con le armi smontate tenute dietro la schiena. Eravamo sotto tiro dei cecchini. Avevamo avuto garanzie da terze parti».

Il vicecomandante Azov: «Ci hanno messo in isolamento»

Ovvero che «ci avrebbero scambiato con altri prigionieri entro due settimane. Non hanno rispettato i patti. Il comando del Reggimento Azov è stato portato nella colonia penale di Olenivka vicino a Donetsk, e dopo tre giorni ci hanno trasferito a Mosca». E lì cosa è successo?
«Dopo i tre giorni a Olenivka – risponde a Repubblica – mi hanno legato i polsi, e, incappucciato, mi hanno messo su un aereo. La prigione era quella di Lefortovo, credo. Ci hanno messo in isolamento. Luce h24, la finestra sigillata. Appesa al soffitto c’era una telecamera che mi riprendeva sempre. Roba che ti spappola il cervello. Sembrava di vivere un unico giorno ma infinito».

Poi racconta di essere stato interrogato due volte. «Mi hanno chiesto cose strane, tipo: “Stepan Bandera è un eroe?”, “cos’è per te l’Ucraina?”. Dopo il secondo interrogatorio, la porta della cella si è chiusa alle mie spalle e non si è più riaperta per i successivi centoventi giorni».

«Sono rimasti sorpresi perché non trovavano tatuaggi di svastiche»

“Putin, per giustificare l’invasione, ha detto di voler denazificare l’Ucraina e il riferimento è a voi”, gli chiede Repubblica.
«Quando eravamo a Olenivka, gli agenti dell’Fsb e gli altri che ci interrogavano sono rimasti sorpresi perché non trovavano tatuaggi di svastiche. Erano arrabbiati. Ho capito una cosa molto importante: persino i servizi speciali russi sono imbevuti della loro stessa propaganda, credono alle televisioni. I militari dovrebbero pensare con sobrietà.

Il momento peggiore dentro Azovstal

Il momento peggiore dentro l’Azovstal? «Quando hanno ammazzato il mio migliore amico, il tenente Andrii Kharkov, 28 anni. La polizia antisommossa russa gli ha sparato al collo mentre copriva una postazione a cui ero assegnato io. All’ultimo Andrii mi aveva sostituito».

E, infine, racconta come è avvenuto lo scambio con soldati russi e l’oligarca Medvedchuk. «Di notte, all’improvviso, le guardie sono entrate, mi hanno ammanettato e mi hanno messo un sacchetto in testa. Mi hanno portato all’aeroporto e sull’aereo ho sentito i nomi di nostri giovani ufficiali. Pensavo che fossimo gli ultimi prigionieri da liberare.
Siamo passati dalla Bielorussia, ho sbirciato la targa di una macchina.
Quando mi hanno tolto il sacchetto, ho visto i volti dei miei amici».

 

 

 

 

 

 

 

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