Nel nuovo libro di Mario Bozzi Sentieri la sfida della modernità passa per il “paradosso del boscaiolo”
Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la premessa del nuovo libro di Mario Bozzi Sentieri “La Rivoluzione 4.0. Roma vs. Davos. Tra lavoro e partecipazione” (Eclettica, pagg. 234, Euro 17,00). Sabato 8 ottobre (ore 11,00) il libro viene presentato a Pietrasanta nell’ambito della rassegna Libropolis. Con l’autore dialogano Alessandro Amorese e Francesco Carlesi, autori dell’introduzione.
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Di fronte al futuro siamo un po’ tutti come Renzo Tramaglino, uno dei protagonisti del romanzo I promessi sposi, affascinato dalle parole del dottor Azzeccagarbugli “con un’attenzione estatica – scrive Alessandro Manzoni – come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne ricava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai”. L’accostamento non sembri irrispettoso per il mondo della scienza e della tecnica. L’idea del “giocator di bussolotti”, prestigiatore e quindi ingannatore, aiuta a smitizzare l’immagine esoterica degli scienziati e dei loro parenti stretti, i tecnici. D’altro canto, “fotografa” l’atteggiamento dell’uomo comune, in estasi di fronte alle strabilianti novità che gli vengono offerte sulla grande piazza della Rete, e pronto ad esserne inconsapevolmente ammaliato e “catturato”.
La tecnologia sarà (è) sempre più “pervasiva”, come preconizzato dai futurologi dell’ultimo decennio del Secolo XX. Nel 1991 Mark Weiser pubblicò, su “Scientific American”, un articolo dal titolo The computer for the 21st century, nel quale ipotizzava un paradigma dal nome “Ubiquitous Computing” e spiegava che le tecnologie sarebbero state destinate a diventare parte dell’ambiente, ad essere un elemento “sullo sfondo” delle attività umane.
Alla “pervasività” della tecnologia, in grado di incorporare capacità computazionali negli oggetti di uso quotidiano (il livello più immediato ed “elementare” delle moderne trasformazioni tecnologiche) fa riscontro il mutare dei meccanismi produttivi, attraverso l’integrazione tra mondo produttivo “tradizionale”, robotica e tecnologia digitale.
La questione non è evidentemente solo tecnica, limitata alla cerchia ristretta dei ricercatori e degli operatori degli specifici settori produttivi. Tocca il destino dei singoli, delle famiglie, delle comunità locali, delle aziende, degli Stati. Rimarca la responsabilità presente di ciascuno e di tutti rispetto al futuro. È l’adattamento di ogni essere umano e delle comunità alle rispettive funzioni nel mondo. È la sfida dell’oggi con l’occhio rivolto oltre la quotidianità. E dunque è segno della volontà/capacità di preparazione rispetto alle sfide che ci attendono.
Nella misura in cui la tecnologia appare, sempre più, come una forza basilare nella società contemporanea e nella costruzione del futuro, studiare le trasformazioni in atto e “governare” il cambiamento appare la via data al singolo essere umano e alle comunità per riappropriarsi del proprio destino e quindi del futuro, sconfiggendo ogni visione fatalistica.
Al Fato, visto come decisione irrevocabile di un dio (oggi incarnatosi nella tecnologia), va dunque opposta l’idea dell’uomo e delle comunità artefici del proprio destino: “faber est suae quisque fortunae” (Ciascuno è artefice della propria sorte), espressione di volontà e di lucida determinazione.
Volontà e determinazione non nascono per caso. Esse sono il frutto di una “presa di coscienza” rispetto alle sfide che il futuro ci pone di fronte e agli strumenti che ci sono dati per affrontarlo. Di “visione del futuro” oggi si parla poco. Si prefigurano certamente stupefacenti progressi tecnologici, in una sintomatica commistione tra realtà, tecnica e fiction. Ma il confronto “di valore” sembra escluso. Così come i metodi e gli strumenti di lavoro con cui arrivare ai nuovi, fatidici appuntamenti con la modernità.
“La Rivoluzione 4.0. Roma vs. Davos. Tra lavoro e partecipazione” di Mario Bozzi Sentieri
Per cogliere questo discrimine “di metodo” ci aiuta quello che è stato definito il “paradosso del boscaiolo”: un’efficace storiella dello psicologo e drammaturgo argentino Jorge Bucay (Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere, 2002).
“C’era una volta un boscaiolo che si presentò a lavorare in una segheria. Il salario era buono e le condizioni di lavoro ancora migliori, per cui il boscaiolo volle fare bella figura. Il primo giorno si presentò al caporeparto, il quale gli diede un’ascia e gli assegnò una zona del bosco. L’uomo, pieno di entusiasmo, andò nel bosco a fare legna. In una sola giornata abbatté diciotto alberi. “Complimenti” gli disse il caporeparto. “Va avanti così”. Incitato da quelle parole, il boscaiolo decise di migliorare il proprio rendimento il giorno dopo. Così quella sera andò a letto presto. La mattina dopo si alzò prima degli altri e andò nel bosco.
Nonostante l’impegno, non riuscì ad abbattere più di quindici alberi. “Devo essere stanco” pensò. E decise di andare a dormire al tramonto. All’alba si alzò deciso a battere il record dei diciotto alberi. Invece quel giorno non riuscì ad abbatterne neppure la metà. Il giorno dopo furono sette, poi cinque, e l’ultimo giorno passò l’intero pomeriggio tentando di segare il suo secondo albero. Preoccupato per quello che avrebbe pensato il caporeparto, il boscaiolo andò a raccontargli quello che era successo, e giurava e spergiurava che si stava sforzando ai limiti dello sfinimento. Il caporeparto gli chiese “Quando è stata l’ultima volta che hai affilato la tua ascia?”. “Affilare? Non ho avuto il tempo di affilarla: ero troppo occupato ad abbattere alberi”.
Sulla strada del futuro molti, oggi, sono un po’ come il boscaiolo del racconto: concentrati sul numero di alberi da abbattere (il fare quotidiano) ma poco attenti agli strumenti di lavoro (la visione del futuro e quindi le sfide che ci attendono).
Il nostro invito è di guardare oltre la mera quotidianità per tornare a misurarsi con le visioni d’assieme, con gli strumenti in grado di “governare” il cambiamento, con una “modernità” che non deve essere subita, ma va compresa e coniugata con le visioni più ampie del bene comune, dell’etica, della giustizia sociale. Da qui – volenti e nolenti – passa inesorabile il destino di ogni comunità nazionale.