Da Bobbio a Fo e Ingrao: quei “fascisti” della prima ora dimenticati da Cazzullo e dai nuovi antifascisti…
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Quando Pietrangelo Buttafuoco intervistò per il Foglio, il 99, Norberto Bobbio, il grande filosofo torinese non nego’ il suo periodo fascista, assai fecondo e testimoniato da un’appassionata lettera al Duce nel 1935 in cui, lamentandosi per una perquisizione, ricordava al capo del governo la sua antica militanza e la sua fede incrollabile nel PNF.
Un secolo dopo la marcia su Roma, l’elenco dei fascisti illustri passati sull’altra sponda dopo il 25 luglio del 43 è un rosario lungo e illimitato che comprende, nello stesso tempo, ex dogmatici, militanti di comodo e italiani tipici di gran levatura che anticiparono la massima di Flaiano salendo sul carro del vincitore. Certo, rileggere le parole sulla supremazia della razza del giovane Eugenio Scalfari su Roma Fascista fa’ ancora uno strano effetto. E che dire del futuro, primo Presidente della Camera comunista, Pietro Ingrao? Nel 1935 compose la poesia “Coro per la nascita di una città “ definendo la nascente Littoria “Una cattedrale nella selva “. Bottai, da ministro dell’educazione, forgiò un’intera generazione di improvvisati postumi antifascisti. Aldo Moro, che sì recò da ministro ai suoi funerali il 1959, e Amintore Fanfani erano tra gli allievi più promettenti, entusiasti cantori del modello di corporativismo nazionale. Nilde Iotti, divenuta la compagna del ”Migliore” e poi prima donna, sempre comunista, a presiedere Montecitorio, otteneva raccomandazioni e lasciapassare, grazie alla sua adesione al PNF avvenuta il 1942, a guerra in corso e ben dopo le leggi razziali, pur dì insegnare.
Forse anche per questo Togliatti rivolse da Radio Londra l’appello” ai fratelli in camicia nera” dì cui lo storico Antonio Parlato ha magistralmente raccontato, e si fece promotore dell’amnistia che chiudeva un cerchio storico fatto dì contraddizioni e improvvisate esibizioni di resistenza. E che dire di Giorgio Bocca,che prima di diventare partigiano, proponeva l’assurdo teorema del protocollo degli avi dì Sion, il 42, a riprova del suo antisemitismo? Il pantheon del fascismo convertito comprende il repubblichino Dario Fo, in seguito premio Nobel per la letteratura e fondatore di Soccorso Rosso.
Giacomo Mancini, gigante socialista, ammise dì essere stato iscritto al Guf. Molti per necessità, altri per convinzione, tanti intellettuali e politici eretti a protezione della democrazia repubblicana avevano avuto dimestichezza con la camicia nera. Bobbio lo ammise con Buttafuoco e rispose sdegnato a Gad Lerner che aveva ipotizzato una sorta di intervista plagio. Il senso di colpa collettivo del dopoguerra che sì trascina sino ai giorni nostri è il risultato di una rimozione dì massa che ha privilegiato la contingenza all’analisi. Certo, gli antifascisti veri esistevano e patirono le conseguenze della loro coerenza.
Nella militanza di costruzione del pensiero unico, quelli di facciata, però, rinnegarono anni e scritti dì totale subordinazione al regime. A volte erano giovani sacerdoti dell’ortodossia dì massa, cantori puri del patto d’acciaio. Una milizia di intellettuali già dotati pronti ad addebitare alla giovinezza un accolito che sì manifestava con sperticato elogi al regime e al suo fondatore. Del resto, anche Don Benedetto Croce diede ancora la fiducia al governo dopo l’omicidio Matteotti. Demonizzarli significherebbe disconoscere una pessima tradizione bizantina che ha visto, nel tempo, proprio l’avanguardia culturale schierata con la maggioranza. Canonizzarli, però, darebbe poca luce ai veri, coraggiosi combattenti della libertà. Che restano, con buona pace di Cazzullo, un’esigua minoranza.