Gli Usa sotto la guida di Biden riabilitano il regime sanguinario di Maduro: equilibri mutati in Sud America
Con la fine dell’inasprimento delle sanzioni economiche inflitte al Venezuela a partire dal 2019, quando presidente degli Stati Uniti era Trump, l’equilibrio geopolitico nel Sud America è destinato a cambiare. Ora che i governi di sinistra hanno assunto il controllo di Washington, Bogotá e Brasilia, aggiungendosi a quelli dello stesso colore politico già esistenti in quell’area, anche il regime di Caracas riprende forza e vigore.
I rapporti di Nicolás Maduro con gli Usa sono stati riavviati nello scorso marzo, appena dopo l’invasione russa in Ucraina, quando l’amministrazione Biden ha incontrato i rappresentanti del governo venezuelano, e sono proseguiti a ottobre, con un’intesa sulle fonti alternative di petrolio. Contestualmente, due nipoti della moglie di Maduro, che erano stati arrestati negli Stati Uniti per narcotraffico, sono stati scambiati con sette cittadini statunitensi incarcerati in Venezuela. Maduro ha poi incontrato John Kerry, inviato speciale di Biden per il clima, e poco più di una settimana fa da Washington hanno concesso a Chevron, la compagnia petrolifera statunitense, di riprendere le estrazioni di petrolio in Venezuela. Gli Usa hanno ultimamente anche sbloccato fondi esteri del Venezuela per 3 miliardi di dollari.
Insomma, si chiude un ciclo di almeno 15 anni, in cui Washington ha sempre “combattuto” l’autocrazia venezuelana.
Il disgelo è cominciato anche sul versante colombiano. Un mese fa, il primo ministro colombiano, Gustavo Petro, da agosto a capo di una coalizione di sinistra che comprende il Partido Comunista, ha incontrato Maduro, mantenendo la promessa elettorale di un riavvicinamento al Venezuela, del cui sostegno i colombiani hanno bisogno per raggiungere la “pace totale” con gli avversari interni, compresi i guerriglieri dell’ELN.
Il presidente del Cile, Gabriel Boric, la “nuova stella” della sinistra latinoamericana, nell’attesa che si insedi Lula in Brasile, lavora alacremente al rafforzamento dell’asse “rosso” insieme a Xiomara Castro, presidente dell’Honduras e leader di Libertad y Refundación.
Il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, è tornato ad ospitare i negoziati tra governo e opposizione venezuelani che erano stati interrotti alcuni mesi fa dopo l’estradizione negli Usa di Alex Saab, il braccio destro di Maduro. Quest’ultimo ha avviato i colloqui con le opposizioni per definire modalità e tempi delle elezioni presidenziali previste nel 2024, che a questo punto potrebbero anche essere anticipate.
Le esigenze economiche aggravate dalla guerra in Ucraina, che incidono sul mercato petrolifero internazionale, spingono per un allentamento delle sanzioni al Venezuela, che rafforzerebbe Maduro e indebolirebbe l’opposizione interna, con Juan Guaidó, l’ex presidente dell’Assemblea nazionale e capo di Stato riconosciuto dall’amministrazione Trump, che perde sostegni.
È assai improbabile che il disgelo dei nuovi alleati di sinistra incoraggi Maduro ad “avvicinarsi alla democrazia”, come pure ipotizzano alcuni analisti, per la semplice ragione che si tratta di regimi populisti, alcuni con base militare e altri formatisi dopo una lunga guerra civile non dichiarata. Lo stesso regime di Maduro ha sostituito la dittatura del proletariato di Chavez con una “egemonia” molto simile a quella teorizzata da Gramsci.
La ripresa delle relazioni internazionali con gli Stati Uniti, poi, giunge nel pieno dell’efferatezza di un regime che mosse i primi passi nel 1999, quando Hugo Chávez venne eletto per il primo di quattro mandati presidenziali. L’ex ufficiale dell’esercito usò le abbondanti riserve di petrolio del Venezuela per diffondere ricchezza, consolidare il potere, perseguitare i dissidenti e unirsi alla Cuba di Castro, il suo maestro, che gli svelò il trucco: prima si prende il potere, ossia l’esercito, la polizia e la magistratura, e poi tutto il resto: scuole, economia, stampa e sindacati. Infine si fa la rivoluzione: chi potrebbe opporsi? Chávez fece lo stesso, creò squadre paramilitari, assunse il controllo dell’esercito ed espropriò le imprese, come prevede la ricetta comunista. PDVSA, la compagnia petrolifera di Stato, fu il bancomat personale con cui riuscì ad affondare un Paese tra i più ricchi di petrolio al mondo.
Eppure il regime di Chávez divenne un modello per la sinistra internazionale anti-occidentale e il suo nome diventò perfino un’ideologia – lo Chavismo – basata sul controllo centralizzato e una politica intesa come guerra di religione, con relativa caccia all’infedele.
Alla morte di Chávez, nel 2013, il successore Maduro accelerò la transizione verso l’autoritarismo che costò l’espulsione di oltre 5 milioni di venezuelani, una mortalità infantile alle stelle e un enorme numero di decessi per malnutrizione. Sconfitto alle elezioni del 2015, Maduro continuò lo stesso a “governare col popolo e i militari”. Sottratti i poteri al Parlamento, s’inventò un’Assemblea Costituente che si concretizzò in un vero e proprio golpe. Da allora non ha mai smesso di essere anticapitalista, di invocare il popolo “puro” contro le élite “immorali”, di detestare la democrazia rappresentativa e l’Occidente liberale. Un rapporto del 2019 di una missione delle Nazioni Unite guidata dalla socialista Michelle Bachelet, ex presidente cilena, parlò di squadroni della morte obbedienti al governo venezuelano che entrano nei quartieri poveri, uccidono, saccheggiano e stuprano. Oltre 10 mila le esecuzioni, migliaia i torturati e i morti nelle proteste di piazza e nelle galere. Per non parlare dei giornali chiusi, dei docenti e intellettuali dissidenti perseguitati e ricattati. È noto che, pur di sopravvivere, il regime non ha esitato a coprire i narcotrafficanti e stringere alleanze con l’Iran.
Tutto ciò non è bastato a Pd e M5S per votare a favore, nel gennaio 2021, della risoluzione con cui il Parlamento europeo condannò duramente il regime comunista venezuelano. E forse non basta neanche ai democratici statunitensi, dato che oggi riabilitano quel regime sanguinario.