Misteri letterari, il caso Dante Arfelli: un “disallineato” del ‘900. Riscoprire i “Superflui”

5 Dic 2022 14:30 - di Massimo Pedroni
Dante Arfelli

In alcuni casi la fortuna editoriale, di pubblico e di critica arride a un autore in modo imprevisto. Clamoroso. L’avvenimento, giunge ancora più inatteso se il libro di successo in questione è un’opera prima. Si rimane colpiti dal fatto, come nel caso che proponiamo all’attenzione, quanto l’istante di quel tocco magico, evapori talvolta senza lasciare tracce. Inspiegabili evanescenze del mondo editoriale. Prismatica Torre di Babele usa e getta, che l’alimenta e la divora allo stesso tempo. Non mi è neanche più chiaro, per quali percorsi di letture Dante Arfelli ha catturato la mia attenzione. Forse per qualche riverbero che mi è giunto tempo fa in occasione della ristampa Mondadori, maturata per rendere omaggio alla ricorrenza dei cento anni dalla data di nascita dell’autore, de “I superflui”. Ricorrenza che ha infranto quel sudario di silenzio nel quale ingiustamente era rimasto confinato lo scrittore.

Dante Arfelli, il successo de “I superflui”

Dante Arfelli nacque nella cittadina romagnola di Bertinoro il 5 marzo 1921. Il titolo citato appartiene all’opera di esordio che tanto successo riscontrò sia tra il pubblico che nella critica. Il libro è del 1949 e risultò primo classificato al Premio Venezia, l’antesignano del Premio Campiello. Proclamazione della vittoria di Arfelli sancita da una Giuria di tutto rispetto che spaziava dalla sensibilità del critico Pancrazi, a quella degli scrittori Giani Stuparich e Aldo Palazzeschi. “Un opera amara, cruda anche disperata, se dal fondo della sua chiusa tristezza non si levasse una trepida luce di umana simpatia”: passaggio indicativo delle motivazioni che la Giuria pose a suggello della scelta che aveva effettuato.

Al vincitore, veniva assegnata la cifra di cinquecentomila lire. Somma, che agli occhi del premiato, di origini umili e contadine, apparve rispetto alle sue disponibilità ordinarie, estremamente cospicua. Basti considerare che secondo dicerie dell’epoca giunte fino ai giorni nostri, per la cerimonia di premiazione l’autore indossò un abbigliamento consono all’occasione avuto in prestito da un amico. Arfelli, toccò i vertici della notorietà con il suo “I superflui” a soli vent’otto anni. Fama che superò l’oceano, suffragato dal milione di copie vendute negli Stati Uniti. Numeri di copie vendute, di un’opera di un autore straniero, di difficile realizzazione.

Il successo presso il pubblico statunitense

Scribner, già editore di Hemingway, fece la scommessa vincente. Puntò, sullo sconosciuto per i lettori statunitensi scrittore italiano. In quel periodo era quasi un paradigma obbligato associare il nome dell’autore romagnolo con quello di Albert Camus. Abbinamento prestigioso. Basti considerare, che il lavoro dell’autore francese sarà gratificato nel 1957 dall’assegnazione del Premio Nobel. Anche in terra d’Oltre Alpe, come in Patria, senza raggiungere le vette degli Stati Uniti, le vendite de “I superflui”, si mantennero su livelli ragguardevoli. La narrazione si dipana nel corso degli anni del primo dopoguerra. Quello è il clima nel quale l’autore ambienta la vicenda dei suoi personaggi.

“La quinta generazione”

Il giovane Luca reduce dal conflitto, proveniente dalla provincia forte di un paio di lettere di raccomandazione, si reca a Roma in cerca di opportunità. Nella Capitale, conoscerà dei giovani i quali con un vissuto sentimento di smarrimento generazionale cercano di trovare uno spazio e dare un senso alla propria esistenza. La prostituta Lidia e il tenace utopista Luigi, saranno i più significativi interlocutori del protagonista. Oltre le angosce e le ansie derivanti dalla specificità di quel contrastato periodo, Luca vive anche l’aggressività e la dismisura della grande città rispetto alla dimensione del piccolo centro cui era abituato. A due anni dal successo dell’opera d’esordio, Arfelli nel 1951, pubblica “La quinta generazione”. Un altro suo lavoro, cui verrà riconosciuto apprezzamento critico e di pubblico. Sempre sul filo dello stile Neorealista, che fungeva da forza motrice delle espressioni artistiche del periodo.

I due protagonisti Berto e Claudio, figli di pescatori, hanno la vita che gli scorre accanto. Un tram, che gli sferraglia a bassa velocità, sul quale nonostante reiterati maldestri tentativi non riusciranno a salire. Per manifesta inadeguatezza. I personaggi dei due primi romanzi di questo autore sono totalmente assorbiti dalla logorante consapevolezza di essere insufficienti nel dare risposte alle impellenti domande che la vita pone immancabilmente sul tracciato di ognuno di noi. “La quinta generazione” è il romanzo nel quale, Arfelli, quasi anticipando le scelte esistenziali che opererà, abbandona la scelta narrativa di ambientazione delle storie nella grande metropoli, per tornare alle atmosfere del piccolo centro.

Dante Arfelli, “irregolare” del ‘900

Lo scrittore, era di natura schiva, solitaria. Come i suoi personaggi, avvertiva una inadeguatezza strutturale nell’affrontare l’osservanza dei miti e dei riti della società letteraria. Nelle quali il più delle volte individuava atteggiamenti dettati dal più stolido conformismo. Arfelli, non aveva abbracciato il “neorealismo”, per come si andava a consolidare a livello dei contenuti che lo stavano caratterizzando. Non seguiva di certo la linea molto in voga allora degli scrittori “impegnati”. In termini politici, immediati, tangibili. Queste sue scelte di autonomia e non omologazione, contribuirono d’un canto all’emarginazione dai circuiti dell’editoria dall’altro a cominciare a fargli patire gli effetti della depressione.

La “seconda vita” dedicata all’insegnamento

“Male oscuro”, come l’aveva definito il suo amico Giuseppe Berto, altro eccellente disallineato. Passioni della mente che lo logoreranno al punto, da arrivare a doversi vedere riconosciuti i benefici della legge Bacchelli per potere fare fronte alle spese necessarie all’assistenza della sua persona. Ma l’orizzonte espressivo di Arfelli investiva le avversità dei suoi personaggi in temperie dettate dall’ineluttabilità delle circostanze. Su questi presupposti di ordine caratteriale, e di sensibilità creativa fuori dai canoni vincenti del periodo, l’autore andò a chiudersi sempre più. Dedicò, la sua “seconda vita all’insegnamento”. Attività che cessò di esercitare, spinto a chiedere il prepensionamento dalle fluttuazioni sessantottine.

Il silenzio

La voce dello scrittore, letterariamente parlando si fece sempre più flebile. Interrotta solo nel 1975 con la pubblicazione di “Quando c’era la pineta”, raccolta di racconti usciti in precedenza.  Il silenzio dello scrittore di Bertinoro riprese e si protrasse fino al 1993 quando diede alle stampe “Ahimè povero me”, testi sulle vicissitudini con le quali si trovò a doversi confrontare fino all’epilogo nella casa di riposo di Ravenna dove aveva trovato ricovero e rifugio, che ebbe melanconico compimento il 9 dicembre del 1995. Sicuramente la sua parabola, condotta all’insegna di una esistenza appartata e riservata, non è stata superflua.

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