Clemente Rebora, quel travolgente incontro con la fede che gli costò l’emarginazione
“Gettato faccia a faccia con i diavoli della città del Male non seppi scansarmi dal guardare il volto impietrante di Medusa”. Considerazioni del poeta milanese Clemente Rebora. In più di un’occasione sviluppò nelle sue poesie e scritti argomenti sulle prospettive divergenti offerte dalla dimensione di un’esistenza vissuta in campagna rispetto a una consumata in città. Rebora era nato nel capoluogo lombardo il 6 gennaio del 1885, terminò il suo percorso terreno tra le spire di una dolorosa e invalidante patologia a Stresa il 1° novembre 1957. La tematica, delle differenti prospettive, offerte dall’atmosfera della campagna rispetto a quelle offerte dalla città, attraverserà tutto il XX° secolo. Sorge naturale a tale proposito segnalare, poeti come Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, i quali con accenti diversi delle loro sensibilità, manterranno viva l’attenzione sulla questione.
L’elogio della campagna
Rammentare questo aspetto di riflessioni che assorbirono le energie di Clemente Rebora evidenzia come era presente alle criticità proposte dalla contemporaneità. Le viveva in prima persona. Colpisce il fatto che proprio una persona nata nella città che si era già contraddistinta per laboriosità e capacità imprenditoriale, avesse scelto chiaramente il mondo rurale, che a un occhio superficiale può apparire statico, rispetto alle lusinghe del dinamismo metropolitano. Ne aveva già letto i potenziali pericoli e disarmonie. Già da ragazzo, aveva nei comportamenti manifestato la sua preferenza. Trascorreva infatti le vacanze estive felicemente in campagna seguendo con entusiasmo i ritmi della vita dei contadini, dalla quale si faceva catturare completamente.
Rebora, sensibilità e introspezione
Aiutava i lavoratori della terra ad adempiere alle incombenze quotidiane. Avendo modo così di poter ammirare magici paesaggi offerti dall’avvicendarsi delle albe e dei tramonti. In questi contesti gli sembrava possibile cogliere, quell’atmosfera di pregnante “segreta armonia”, la ricerca della quale tutti sono alla ricerca. Rivolgeva di converso alle città dure espressioni: semenzaio di caos, o termini aspri quali “fogna”, “vorace”. In alcuni suoi versi significativi denuncia con inquieto interrogarsi sullo spezzarsi dell’incanto nelle città “Slancio di creazione / perché si duro t’incrosti / negli urbani viluppi / o men chiaro traluci / o doloroso affondi”.
Le circostanze della vita, segneranno il carattere ricettivo del poeta, dando alimento ad una sensibilità votata all’introspezione. Aspetto della personalità, che nel pieno dell’età matura imprimerà scosse imprevedibili nell’esistenza del poeta. La famiglia d’origine era numerosa.I l poeta era il quinto di sette figli dei coniugi Enrico Rebora e Teresa Rinaldi. Il padre, garibaldino, mazziniano e massone impostò l’educazione dei figli su una base di valori laici. Riverbero di una parte della società lombarda, rimasta distante e diffidente nei confronti della Chiesa a seguito del dipanarsi delle vicende del Risorgimento. Gli studi universitari, furono caratterizzati da alcuni ripensamenti. Inizierà infatti gli studi di Medicina nel 1903 all’Università di Pavia, per poi abbandonarli. Li portò avanti, seguendo quelli di Lettere a lui più consoni. Studi che coronerà con il conseguimento della Laurea nel 1910. Ottenuto il titolo di studio, comincia l’insegnamento da “professoruccio filantropo” nelle scuole serali. Istituzioni scolastiche concepite per dare l’opportunità ai componenti la classe lavoratrice, d’emanciparsi dall’analfabetismo e dalla povertà culturale in genere.
Rebora, la collaborazione con La Voce di Prezzolini
Nel mentre cominciava a collaborare con diversi periodici. La Voce di Giuseppe Prezzolini fu la testata di maggior rilevanza culturale cui il figlio del garibaldino ebbe modo di apportare il contributo. Proprio per la collana delle edizioni de “La Voce” nel 1913 debutta pubblicamente con la raccolta poetica “Frammenti lirici”. Prova che ottenne tiepidi riscontri nel suo complesso. Si avverte la profondità dell’inquietudine esistenziale nella quale con domande dilanianti si arrovella l’animo di Rebora. L’ansia e l’angoscia cresciuta in lui, prendendo piena consapevolezza dell’impossibilità di arrestare il fluire del tempo sia dedicandosi al concedersi piaceri della vita, sia dedicandosi alla mera contemplazione.
Sentire che prende forma in versi carichi di paura e sgomento. “… né i melliflui battiti / né l’oblioso incanto / dell’ora il ferreo battito concede”. Nel 1914, in osservanza di comportamenti laici, che ancora sono centrali nel suo agire, inizia la convivenza con una pianista russa. Poco tempo dopo con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 “il professoruccio” verrà richiamato alle armi in fanteria con il grado di sottotenente. Esperienza che come in tanti della sua generazione lascerà solchi profondi negli animi e nei corpi. La posizione di Rebora, nei confronti dell’entrata in guerra della sua Patria, non fu accesamente Interventista. Seguì da buon milite i doveri che l’Italia assegnava ai suoi figli in quel sanguinoso crocevia del destino dei popoli.
Ferito in guerra
Ferito in combattimento, l’esplosione di una bomba gli provocò una grave situazione di schock, che lo portò ad essere riformato per infermità mentale. Tornato alla vita civile riprende l’insegnamento e l’attività di conferenziere nella quale riscuote grande successo. Nel 1922 pubblica “Canti anonimi”. La personalità poetica e riflessiva di Rebora nel 1928, parliamo di un uomo di più di quarant’anni, avrà un cambiamento radicale. Il travolgente incontro con la fede. Avvenne pubblicamente, quando durante una conferenza sui martiri cristiani, l’apprezzato e brillante oratore a causa del tumulto interiore che ciò che stava esponendo gli provocava non fu in grado di proseguire. La prima tappa di un percorso che lo porterà al sacerdozio. Percorso simile, in maniera assolutamente imprevedibile intraprenderà l’ex mangia preti Giovanni Papini. Clemente Rebora aveva trovato la strada che dava luce e risposte alle sue inquietudini.
La marginalizzazione nella società letteraria
La sua attività di poeta però ne uscì ridimensionata dalla critica. La scelta operata dall’autore di “Frammenti lirici” di fatto aveva determinato una marginalizzazione nella società letteraria. Tanto che Giovanni Raboni in un Convegno dedicato alla rivalutazione del pensiero di Rebora parlò di “viltà culturale” da parte della critica nei suoi confronti. In “Volti di Gesù nella letteratura moderna” il gesuita Ferdinando Castelli pone l’analisi della poetica di Rebora nei termini più propri: “l’opera reboriana è un “itinerarium in mentis Deum” per la cui piena intelligenza è necessario oltrepassare i comuni canoni della critica letteraria per arrivare a quel livello di partecipazione è comunione di anime”. Il segreto, per poter apprezzare al meglio la grande poesia, come è senza dubbio quella del “professoruccio filantropo”, si verifica quando lievita la magica effervescenza tra lettore e poeta. Comunione d’anime. Per l’appunto.