Ratzinger lottò contro la Teologia della liberazione: è questa la grande eredità che ci ha lasciato
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Benedetto XVI, quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina delle Fede, affrontò il tema della Teologia della Liberazione, offrendo con due documenti “Libertatis nuntius” del 6 agosto 1984 e “Libertatis conscientia” del 22 marzo 1986, un determinante ed indispensabile contributo al suo contrasto e dando una risposta chiarissima ai dubbi dei molti.
Si trattò di una risposta estremamente chiara ed esauriente, nella quale fu esaminato compiutamente quel fenomeno straordinariamente complesso, che è e resta la Teologia della Liberazione, nel cui ambito alcuni teologi “hanno fatto propria la opzione fondamentale marxista”. In quel senso – venne rilevato – la Teologia della liberazione diventava un pericolo preoccupante per la fede della Chiesa, anche se purtroppo non appare più tale ai nostri giorni.
L’allora Cardinale Ratzinger esaminava, innanzitutto, la situazione venutasi a creare dopo il Concilio Vaticano II, e rilevava che; a) “si creò l’opinione che la tradizione teologica esistente fino ad allora non era più accettabile e che di conseguenza si doveva cercare, a partire dalla Scrittura e dai segni dei tempi, orientamenti teologici e spirituali totalmente nuovi; b) l’idea di apertura al mondo si trasformò spesso in una fede ingenua nelle scienze… La psicologia, la sociologia e l’interpretazione marxista della storia furono considerate come scientificamente sicure..; c) la critica della tradizione da parte della esegesi evangelica moderna, specialmente di Bultman e della sua scuola, divenne una istanza teologica inamovibile..”. A tale situazione ecclesiale si aggiunse “il nuovo clima filosofico degli anni sessanta. L’analisi marxista della storia e della società fu considerata, nel frattempo, come l’unica a carattere scientifico. Ciò significava che il mondo veniva interpretato alla luce dello schema della lotta di classe e che l’unica scelta possibile era quella tra capitalismo e marxismo. Significava, inoltre che tutta la realtà è politica e che deve essere giustificata politicamente. Il concetto biblico del povero offre il punto di partenza per la confusione tra l’immagine biblica della storia e la dialettica marxista”.
“Se fino ad ora la Chiesa, cioè la Chiesa cattolica nella sua totalità che, trascendendo tempo e spazio, ha abbracciato i laici (sensum fidei) e la gerarchia (magistero) era stata l’istanza ermeneutica fondamentale oggi lo è diventato la comunidad… Popolo diventa così un concetto opposto a quello di gerarchia e in antitesi a tutte le istituzioni indicate come forze dell’oppressione. Infine è popolo chi partecipa alla lotta di classe; la Iglesia popular si pone in opposizione alla Chiesa gerarchica”.
Emergeva, come si vede, una nuova interpretazione del cristianesimo, nella quale secondo il Prefetto del tempo della Congregazione per la Dottrina della Fede, la “fede” viene sostituita dalla “fedeltà alla storia” (Sobrino); “la speranza” diventa la “fiducia nel futuro” e quindi nella storia delle classi; “l’amore” coincide con “l’opzione per la lotta di classe”; la verità si socializza nella storia e nella prassi: solo l’azione diventa ed è la verità.
Ciononostante si continua a sostenere – ancora oggi e soprattutto in questi ultimi anni – che nella cosiddetta Teologia della liberazione ci siano molti aspetti positivi, a partire proprio dal concetto di libertà.
Eppure questa nuova teoria fin dall’inizio fu ben altro dal Cristianesimo secondo il Cardinale Ratzinger che si poneva e ci poneva un interrogativo: “cosa si possa e si debba fare” di fronte a questo fenomeno cosi devastante della “Teologia della Liberazione”.
Questa teologia nacque nell’America Latina intorno al 1960 con il nome di “teologia dello sviluppo” sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle iniziative panamericane di John Kennedy, che andava promettendo la soluzione di tutti i problemi, che allora come oggi, continuano ad assillare il continente latinoamericano. All’entusiasmo, però, subentrò lo scoraggiamento e quindi, da parte di tutti coloro che si erano illusi, venne imboccata la strada della rivoluzione armata: sono i tempi che Fidel Castro esporta la sua rivoluzione con Che Guevara e che Camillo Torres inizia la guerra in Colombia (1965). A Medelin nel 1968 nasceva, nonostante le raccomandazioni di Paolo VI, che si reca personalmente in Colombia, la nuova teologia che prende, appunto, il nome “Teologia della Liberazione” e che, per certi versi, si ispirava ad alcuni modelli europei come quello della “teologia politica” di J. B. Metz.
Dal 1968 con pubblicazioni, associazioni, riunioni, gruppi, i fautori di questa teologia diffusero non solo nelle chiese latinoamericane, ma anche in Africa, nelle Filippine, in India, nello Sri Lanka, a Taiwan e persino, in alcuni ambienti europei, le nuove idee che, in verità, non trovarono nella gerarchia molti contraddittori ed oppositori, con un’abbondanza di mezzi materiali e finanziari “il che lascia molte domande senza risposte”, come rilevava l’arcivescovo Cabral Duarte, arcivescovo di Aracajù in Brasile, nel corso del sinodo che si svolse nel 1983, sul tema “La riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa”.
Risulta evidente, infatti, contrariamente alle parole d’ordine che, ancora oggi, si fanno circolare anche nel mondo cattolico sul conto della teologia della liberazione, che:
- non si trattava di un fenomeno religioso spontaneo, perché, se così fosse stato, sarebbe stato diverso da paese a paese ed avrebbe assunto caratteristiche diverse le une dalle altre a seconda delle situazioni politiche, economiche e sociali locali;
- non nasceva da esigenze religiose e spirituali della cosiddetta base, in quanto la diffusione contemporanea, simultanea ed “a comando” di certi slogans e di certi leit-motiv univoci presupponeva, viceversa, una rete capillare di operatori pastorali, di attivisti, di organizzazioni e di mezzi finanziari di notevole entità;
- non attecchì, esclusivamente in zone agricole e tra le popolazioni indie o sottosviluppate, ma viceversa con più virulenza nelle periferie dei grossi centri urbani, tra il proletariato più sindacalizzato e politicizzato.
In conclusione i due documenti della Congregazione per la Dottrina delle Fede del 1984 e del 1986, guidata allora dal cardinale Joseph Ratzinger, quando ne era Prefetto, rappresentano un richiamo, ancora oggi assai valido ed attuale, alla responsabilità dell’episcopato ed un invito a tutti quei cattolici, che continuano a sottovalutare i pericoli di questa teologia che come un camaleonte si è mimetizzata nelle nuove ideologie dell’ambientalismo e dell’animalismo.