Vittorio Feltri commosso per Vialli: “L’uomo era di valore perfino superiore al calciatore”
Il Gianluca Vialli borghese, ricco, altolocato, ma umile, capace di parlare alla gente semplice, di giocare al calcio come pochi ma anche di parlare un linguaggio umano come pochi calciatori hanno mai fatto. Il ricordo che Vittorio Feltri su Libero riserva a Gianluca Vialli, scomparso ieri per un tumore a 58 anni, è sincero e commosso. “C’è gente che lavora, a Cremona, e che suda, facciano gli operai, i liutai o i calciatori. E Vialli, infatti, che abbandona la scuola a sedici anni per dedicarsi completamente al pallone (ma non aver conseguito la maturità gli stava sul gozzo e infatti ha poi preso il diploma di geometra nel 1993), nella Cremonese passa dalla serie C1 alla B nel 1981 e dalla B alla A nel 1984. Quando la stagione successiva passa alla Sampdoria, che non aveva mai vinto niente né a livello nazionale né tantomeno internazionale, con i blucerchiati Vialli vince, in otto anni, tre Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, lo scudetto del 1991 e una Supercoppa di Lega. È pure uno fedele, perché al Berlusca che lo vorrebbe al Milan, in anni in cui al Berlusca non si dice di no- durante i Mondiali del Messico nel 1986 e dopo la finale di Coppa delle Coppe nel 1989 a Berna contro il Barcellona… Voglio vincere qui, poi ci penserò”.
Feltri e Vialli, un ricordo che non è solo sportivo
Vittorio Feltri passa in rassegna tutta la carriera del calciatore scomparso, dalla coppia con Mancini al legame con Boskov e Mantovani. “Vialli dev’ essere andato in fissa con le frasi e gli aforismi grazie al magistero di Bokov: ne ha riempito il libro, a ogni storia di grandi sportivi che racconta ha abbinato una frase motivazionale”, scrive il giornalista. Poi il, binomio con Lippi, le parole dell’avvocato Agnelli che lo paragona a Gigi Riva. “Sempre per rimanere sugli Agnelli: sono famose (o sono leggenda) le telefonate che l’avvocato faceva a Vialli tra le sei e le sette del mattino per cercare spiegazioni di quel gol là o di quel passaggio lì. Il calciatore obbligò le segretarie dell’Avvocato a mettere il suo nome in fondo alla lista delle chiamate: almeno il telefono squillava verso le otto”. Poi i giudizi di Gianni Brera, le giocate con Baggio e Ravanelli, i rapporti non facili con Trapattoni e Sacchi, il primo che lo vuole centrocampista, l’altro attaccante ma lo fa sgobbare troppo in copertura. E con il silenzio, arriva la decisione di andarsene al Chelsea. Vialli viveva a Londra dal 1996 («La gente paga le tasse», diceva, «si ferma alle strisce pedonali, fa la coda. C’è un equilibrio fantastico tra disciplina e libertà») e l’Italia gli andava bene per le vacanze. Il carattere non è mai cambiato: ha trattato la malattia che lo ha colpito al pancreas con la riservatezza di un lombardo e la responsabilità di un personaggio pubblico; confessò di essere andato in giro con un maglione sotto la camicia per nascondere di aver perso 17 chili e riuscì persino a scherzarci”.
La dignità nella malattia terribile che lo colpì
La parte finale dell’editoriale di Feltri è commovente e riguarda la malattia e la fine di Gianluca Vialli: “Della sua guarigione parziale parlava di ‘approccio olistico’, cioè il tutto è superiore alla somma delle sue parti: l’operazione, certo, e le cure, ma la parte spirituale e mentale, la forza del subconscio sono ciò che gli permetteva di non mollare. Io, l’approccio olistico, lo riferisco direttamente a lui: il Vialli essere umano era superiore al suo dribbling, ai gol di testa e alle rovesciate (come quel gol formidabile contro la Cremonese, 23 ottobre 1994), come il suo spirito di sacrificio era superiore al carisma, al fiuto per il gol, alla tecnica, alla potenza, alla rapidità. Caro Gianluca, la tua fine mi fa male al cuore”.