Pd, riformisti sotto choc: la vittoria di Elly Schlein scatena la rivolta. Incubo scissione
Al momento sono ancora brontolii remoti, in tutto simili a quei borborigmi celesti tipici dei temporali in avvicinamento. Il saggio, allora, non dimentica l’ombrello perché sa che prima o poi arriverà. E nel Pd del day after del trionfo di Elly Schlein sono in molti a munirsene. Un po’ per scaramanzia un po’ per realismo politico. Lo spostamento del partito a latitudini radical-azioniste è vissuto dai riformisti interni come uno strappo irrimediabile. E non solo da loro, ma anche da quel che resta della vecchia area cattodem, la stessa – per intenderci – da cui proviene Mattarella. Ieri l’ex-ministro Beppe Fioroni se n’è andato sbattendo la porta e annunciando che insieme ad altri realizzerà una piattaforma centrista aperta a chi non vuole che il Pd torni ad essere una riedizione dei Ds.
Attesa per le prime mosse della Schlein
Ma i brontolii più profondi arrivano dai territori, dall’apparato, dalla cosiddetta “ditta“. La Schlein ha vinto nelle primarie aperte, ma quelle tra gli iscritti hanno incoronato Bonaccini con il 52 per cento a fronte del 36 ottenuto dalla neo-segretaria. E quella è l’ossatura del Pd, fatti di tessere, sedi, amministratori, dirigenti. Un mondo rimasto imbambolato dal responso dei gazebo. E che ora guarda alle mosse della Schlein per capire se aprire o no l’ombrello. Ma anche la neo-leader ha le sue gatte da pelare, stretta com’è tra l’ala dialogante dei suoi sostenitori, i Gattopardi tipo Franceschini, Zingaretti o Bersani, e quella intransigente dei nuovi “guardiani della rivoluzione” modello Boccia. La prima carta che ha disposizione è quella della presidenza del partito.
Il rebus della presidenza del partito: Letta o Bonaccini?
La offrirà a Enrico Letta o allo stesso Bonaccini? Quest’ultimo un po’ se l’aspetta, anche perché nessuno meglio di lui testimonierebbe della volontà della Schlein di ricucire con gli sconfitti. Ma per molti non basterebbe. È il caso di Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo. Quel che conta – sostiene – è la linea politica, a cominciare dalla posizione sull’Ucraina. Una deviazione dal tracciato atlantista di Letta sarebbe inammissibile. E non solo per lui, ma per l’intera galassia riformista. Il timore, molto diffuso, è che in questa situazione di incertezza finisca per incoraggiare le scorribande di Matteo Renzi. Dovesse accadere, sarebbe una vera beffa assistere al ritorno dell’ex-segretario in veste di beneficiario della diaspora dopo aver tentato di esorcizzarlo definitivamente attraverso un interminabile congresso.