Omicidio Fragalà, condanne confermate. Meloni: la sua onestà e il suo impegno fonte di ispirazione (video)
“La prima sezione della Corte di Cassazione ha confermato le condanne per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, avvenuto per mano mafiosa nel 2010 a Palermo. La sua onestà e il suo impegno per la legalità sono fonte di ispirazione. Un abbraccio alla figlia Marzia e alla famiglia“, scrive su Twitter il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni rendendo omaggio al noto penalista palermitano, parlamentare di Alleanza Nazionale e docente universitario ferito a morte da Cosa Nostra il 23 febbraio 2010, all’indomani della decisione della Corte di Cassazione che ieri ha confermato le condanne per tre dei suoi quattro assassini – Antonino Abbate, Francesco Arcuri e Salvatore Ingrassia – che avevano fatto ricorso ai giudici di piazza Cavour. Il quarto, condannato ormai in via definitiva a 14 anni, Antonino Siragusa, pentito, aveva rinunciato a fare ricorso per Cassazione. Assolti, invece, in primo e secondo grado, Paolo Cocco e Francesco Castronovo.
“Giustizia è fatta – chiosa il parlamentare di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone. – Ci stringiamo alla famiglia e alla figlia Marzia che ne ha raccolto l’eredità”.
Ieri era stato il sostituto procuratore generale, Giuseppina Casella, chiedendo la conferma delle condanne, a rendere omaggio alla memoria di Enzo Fragalà nel corso della sua requisitoria durante l’udienza che ha messo la parola fine alla vicenda giudiziaria.
“Rendo omaggio in questo luogo all’avvocato Fragalà, vittima di un’aggressione brutale in quanto avvocato, ammazzato perché avvocato”, aveva detto Casella ricordandone l’impegno antimafia al punto di essere definito “sbirro” da Cosa Nostra. Perché convinceva i suoi assistiti a passare dalla parte della Giustizia.
Nella sua requisitoria il Pg Casella aveva chiesto di rigettare i ricorsi presentati dalle difese degli imputati Antonino Abbate, Francesco Arcuri e Salvatore Ingrassia (un quarto, Antonino Siragusa, pentito, condannato in appello a quattordici anni non ha presentato ricorso e due erano stati assolti) condannati in primo e secondo grado.
” Il contesto mafioso in cui è maturato questo delitto è lo stesso degli imputati e proprio lì è maturato il movente: occorreva impartire una lezione a Fragalà, che, secondo la loro visione, non faceva l’avvocato ma lo ‘sbirro’”, ha detto il Pg Casella ai giudici della Suprema Corte.
Enzo Fragalà fu atteso il 23 febbraio 2010 sotto al suo studio in via Nicolò Turrisi, di fronte al Tribunale di Palermo, da un commando mafioso che aveva lungamente preparato l’agguato al penalista “colpevole”, secondo la logica di Cosa Nostra, di convincere i suoi clienti a scegliere la legalità e la Giustizia voltando le spalle alla mafia.
Cosa Nostra lo aveva soprannominato “l’avvocato sbirro”. Perché consigliava ai suoi clienti, risucchiati dalla mafia, di aprirsi con i magistrati. Una scelta, prima che difensiva strategica, etica. Che aveva consentito a parecchi imprenditori, costruttori, professionisti e pesci piccoli di evitare condanne pesantissime. E di scegliere lo Stato invece dei clan. Voleva dire violare le severe regole di omertà che la mafia prevede.
E questo Cosa Nostra non lo ha perdonato ad Enzo Fragalà.
Nella ricostruzione giudiziaria della vicenda vi furono diversi episodi che irritarono le famiglie mafiose portandole, ad un certo punto, a decidere che era arrivato il momento di dare una lezione all’avvocato Fragalà.
Nel giugno 2006, nel corso dell’operazione Gotha, venne arrestato il capomafia di Pagliarelli, Antonino Rotolo che, già in passato, aveva subito sequestri di beni.
Due anni dopo, nel novembre 2008, finirono in manette tre persone accusate di essere legate al boss: Salvatore Fiumefreddo, ragioniere e impiegato in un’azienda edile di proprietà dell’imprenditore Francesco Pecora, 69 anni, anche lui arrestato e Vincenzo Marchese, 62 anni, vigile del fuoco in pensione.
Enzo Fragalà divenne il difensore di tutti e tre. E, quale legale di fiducia, li convinse ad ammettere gli episodi di cui erano accusati, ad aprirsi ai magistrati che avevano di fronte tradendo le rigidissime regole di Cosa Nostra, violandone i precetti, i patti, i princìpi di omertà.
Fu, per la mafia, un affronto indicibile. Soprattutto perché commesso da un avvocato, come Enzo Fragalà, che aveva osato pubblicamente rifiutare, in passato, la richiesta di Totò Riina di difenderlo, perché il parlamentare di An era stato compagno di Università di Borsellino.
Le confessioni dei tre, indotte da Fragalà, provocano una catastrofe finanziaria per le cosche con sequestri di beni enormi per il capomafia Antonino Rotolo.
Nei “pizzini“, ritrovati nel covo, proprio dietro al Tribunale di Palermo, dove la Sezione Catturandi della polizia arrestò, il 5 dicembre 2009, dopo tre anni di latitanza, l’allora ventottenne Gianni Nicchi, figlioccio del boss Rotolo di cui aveva preso il posto alla guida del clan Pagliarelli dopo l’arresto del capomafia, è cristallizzata tutta la rabbia per quelle confessioni indotte da Fragalà suggerendo ai suoi assistiti di prendere le distanze dalla mafia.
Anche perché Nicchi, non è uno qualunque: Soprannominato ‘u picciutteddu e tiramisù, in fortissima ascesa nell’organigramma mafioso era considerato all’epoca uno dei nuovi boss di Cosa Nostra a Palermo. Basti pensare che Rotolo lo inviò, come suo emissario personale, a trattare, negli Stati Uniti, con le più importanti famiglie mafiose e controllare il ritorno degli Inzerillo a Palermo costretti alla fuga oltreoceano dalla guerra mortale fra i clan.
E infatti il giorno dell’arresto di Nicchi, in quel covo beffardamente piazzato nei pressi del Tribunale di Palermo, nella zona dove poi sarà assassinato Enzo Fragalà, gli agenti della Catturandi ritroveranno un pizzino , indirizzato da Nicchi a un altro prestanome del boss Rotolo, Raffaele Sasso, nel quale si cita un articolo uscito su un giornale che riferisce dell’interrogatorio di Fiumefreddo. E si parla, con disprezzo di quegli “indegni”, cioè di Fiumefreddo e Marchese, che avevano confessato su consiglio del loro avvocato Enzo Fragalà.
L’ira di Cosa Nostra contro il penalista è alle stelle.
Quattro giorni prima che Cosa Nostra ammazzi a bastonate Enzo Fragalà succede qualcosa che induce i boss a passare all’azione contro il penalista.
Nel corso di un’udienza del processo in cui è coinvolto Vincenzo Marchese, vigile del fuoco in pensione, amico del boss Rotolo e suo prestanome, Fragalà legge in aula, ad alta voce, una lettera firmata da Antonietta Sansone, moglie del capomafia di Pagliarelli, Antonino Rotolo, indirizzata a Marchese che l’ha consegnata al suo legale di fiducia.
Nella lettera la donna si scusava con Marchese per averlo coinvolto nel riciclaggio di denaro. Al vigile del fuoco in pensione, infatti, era stato detto di recuperare, custodire e investire 500 milioni di vecchie lire frutto – gli viene raccontato – di una vincita al Lotto ma, in realtà, derivati dall’attività criminale della cosca.
La lettura di quella missiva in aula da parte di Enzo Fragalà è una sfida che per Cosa Nostra rappresenta l’ultimo affronto. E induce la mafia a passare alle vie di fatto.
Quattro giorni dopo il commando mafioso entra in azione.
Le telecamere di via Niccolò Turrisi inquadrano due persone, indicate nella minuziosa relazione dei carabinieri come Antonino Siragusa e Salvatore Ingrassia, passare due volte, prima e dopo l’omicidio, in prossimità del luogo dove viene ucciso Enzo Fragalà.
Le intercettazioni della Squadra Mobile che ascolta i mafiosi, e le indagini dettagliatissime fatte, successivamente, dai carabinieri incrociando i dati delle celle telefoniche con i video delle telecamere di un Istituto di credito, di un negozio e di un palazzo e con le testimonianze delle 9 persone presenti sulla scena, raccontano, come in un film, il dipanarsi del delitto e l’organizzazione logistica. Si sente Siragusa parlare del motorino Scarabeo che verrà utilizzato per raggiungere via Turrisi e per scappare poi dopo l’agguato mortale.
E, poi, ancora Siragusa, lamentarsi che “quelli ancora non sono tornati con il coso di legno“, con il bastone che servirà a colpire a morte Fragalà sotto al suo studio, poi bruciato e gettato in un cassonetto che andrà in fiamme.
In un’altra telefonata, registrata dai carabinieri, fra Siragusa e Abbate, quest’ultimo si irrita perché il suo interlocutore è in ritardo all’appuntamento: “…minchia siamo rimasti alle otto meno cinque“.
Poco dopo si vedono sfilare davanti Antonino Siragusa e Salvatore Ingrassia alle telecamere di via Nicolò Turrisi. In quel momento Enzo Fragalà sta uscendo dallo studio e si avvia, inconsapevole, verso i suoi assassini che lo attendono. Poi l’agguato mortale. Morirà tre giorni dopo in ospedale a causa delle gravissime ferite causate dai mafiosi.
“Lancio un appello al presidente Lorenzo Fontana affinché possa accogliere, per il prossimo anniversario, la richiesta di intitolare un’aula all’ex-parlamentare Fragalà, come vittima della mafia”, propone ora il presidente della Commissione Cultura e deputato di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone.