Se l’utero vale 15mila dollari: la storia dolorosa di Consuelo raccontata da Lucetta Scaraffia
Se l’utero vale 15mila dollari. Decide di vendere il figlio portato in grembo per conto di una coppia di gay per la somma di 15mila dollari. Le servivano anche per migliorare le condizioni di vita dei suoi due figli. Ma da allora per Consuelo, una giovane donna ispanica, nulla sarebbe stato più come prima.
Utero in affitto, la storia di Consuelo
Imbottita di ormoni, controllata a vista mentre il suo corpo cambiava. E costretta a non vedere mai il figlio che ha partorito. È la testimonianza di una giovane donna raccolta da Lucetta Scaraffia per la Stampa. È una storia semplice nella sua crudezza quella a cui dà voce la giornalista, femminista storica negli anni 70 e poi folgorata dal cattolicesimo durante una celebrazione religiosa Santa Maria in Trastevere.
Il mercato delle maternità surrogate
Il racconto fotografa l’immenso dolore della protagonista della maternità surrogata. Oggi tornata di attualità con il certificato di filiazione europep. Ma che la Scaraffia preferisce chiamare utero in affitto, perché trasforma “il bambino in un prodotto che si fabbrica”.
Scaraffia raccoglie la testimonianza della donna
La scrittrice, autrice tra gli altri di Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia – incontra la donna in un albergo della California. Ancora sconvolta per aver partorito, sei mesi prima, un figlio per una coppia di omosessuali di Chicago. Quando Consuelo ha deciso di accettare questa proposta, due anni prima, pensava che sarebbe stato facile. L’idea di potere stare in casa con i figli – racconta Scaraffia – le sembrava una meraviglia. E soprattutto le piaceva la possibilità di guadagnare 15.000 dollari “praticamente non facendo niente”.
Imbottita di ormoni a rischio della vita
Ma quel niente si trasformò ben presto in un macigno. “Il contratto che le avevano fatto firmare parlava chiaro. Per nove mesi avrebbero avuto la possibilità di arrivare inaspettati a casa sua. Per controllare se le regole di ingaggio erano rispettate. Consuelo, ad esempio, non sarebbe stata libera di abortire qualora avesse cambiato idea. E, al contrario, sarebbe stata costretta ad abortire se la coppia committente lo avesse deciso”.
Non è come cuocere una torta e regalarla
Consuelo – prosegue il racconto – viene sottoposta a dosi massicce di ormoni. Che gli costano quasi un anno di nausee, pesantezza, gonfiore, malessere. E, quel che è peggio, il rischio di otto volte superiore di ammalarsi di cancro. Ma molto più straziante e doloroso il resto. La giovane donna ispanica non aveva messo in conto – continua il racconto su La Stampa – che durante quei mesi quel piccolo era diventato suo figlio. “Non era come cuocere una torta nel forno per poi regalarla, come avevano voluto farle credere”.
Una storia che turba, un dolore che non passa
Ora Consuelo parla. Racconta, si confessa. Vuole avvertire altre donne che rischiano di venire coinvolte in questo orrendo mercato. La vendita della capacità di essere madri. Questa la storia che Scaraffia trascrive. “Magari – come scrive sul finale – turbando la felicità di tanti genitori, come le coppie omosessuali, che si sono serviti della pratica dell’utero in affitto. Ma così come è rispettabile e vero il loro dolore per non avere figli, è forse egualmente vero il dolore oggi di Consuelo per avergliene fornito uno”.