Cristina Campo, centenario fecondo di riscoperte: esce un libro sulla schiva poetessa che aveva sete di assoluto

7 Apr 2023 19:34 - di Vittoria Belmonte

Figura schiva e misteriosa, a lungo dimenticata, poi riscoperta, un’opera non classificabile in un preciso genere letterario: chi era Cristina Campo? Nell’anno del centenario della nascita (era nata il 29 aprile del 1923), studiose e filosofe  approfondiscono le molte anime di una voce poetica finalmente ritrovata. Nasce così il volume Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile (edizioni Mimesis), a cura di Chiara Zamboni.

L’interesse per la poesia e per le poetesse

Come ha scritto Davide Brullo sul Giornale, “nel canone della Campo figurano Giovanni della Croce e John Donne – tradotto per Einaudi nel 1971 –, Hugo von Hofmannsthal e Thomas S. Eliot, Simone Weil, Lawrence d’Arabia, Emily Dickinson. Coltivò un legame epistolare con William Carlos Williams (che tradusse, con genio, per Scheiwiller e per Einaudi, sotto l’astro di Vittorio Sereni); tra i suoi ultimi lavori, spiccano le versioni di alcuni testi di Efrem Siro, padre dell’innografia cristiana – genere da tempo sotto disprezzo – e di un paio di poemi di Peter Lamborn Wilson, alias Hakim Bey, amico di William Burroughs, guru della controcultura, incauto incrocio tra Henry Corbin e Timothy Leary. Nel 1953, per Gherardo Casini Editore, cercò di realizzare un’opera per l’epoca rivoluzionaria: Il libro delle ottanta poetesse, «una raccolta mai tentata finora delle più pure pagine vergate da mano femminile attraverso i tempi»”.

La riscoperta di Cristina Campo

Cristina Campo – poco apprezzata dalla società letteraria del suo tempo e oggi riscoperta come figura tra le più significative del Novecento – fu meticolosa e assidua nel curare lo stile, la ricerca della perfezione, l’attenzione per il simbolo, per tutto un immaginario, dunque, che la trascinava lontano dal quotidiano, dalla corruzione continua che il tempo opera sulle cose e sugli uomini (di qui anche i suoi studi sulle categorie della fiaba). Amava ciò che è piccolo, ha scritto di lei Pietro Citati, e “aveva un senso sovrano del limite, del confine, lei così smisurata nell’animo”. Forse per questo non scrisse mai romanzi ma solo brevi poesie.

La formazione a Firenze

Non a caso la sua personalità è stata accostata a quella di un’altra filosofa inquieta e visionaria, Simone Weil. Era nata a Bologna ma la sua formazione si svolse a Firenze. E il suo viso sembrava quello di “una statua toscana quattrocentesca”. Gli anni del suo soggiorno fiorentino la fecero entrare in una rete di relazioni intellettuali che ne affinarono l’ingegno (Mario Luzi, Maria Zambrano, Leone Traverso, Gabriella Bemporad). Il periodo romano, dal 1956 in poi, coincise invece con l’aggravarsi della sua malattia cardiaca che la rese sempre più fragile.

Una vita appartata

Condusse una vita appartata, quasi eremitica, al quartiere Aventino, accanto al compagno Elemire Zolla, sotto la protezione della grande chiesa di Sant’Anselmo che la scrittrice frequentava volentieri: «Il suono delle campane che ordina il giorno, accompagna dolcemente la notte – questa esistenza infine, quasi di oblati in ritiro – è puro olio soave sull’anima e il corpo».

Gli anni romani

Quelli romani, ha ricordato Pietro Citati, «furono anche gli anni della crisi mistica e dei testi più belli che Cristina Campo abbia mai scritto». Stabilì intensi sodalizi spirituali anche con personaggi del calibro di Pound, Malaparte e Ernst Bernhard, che le fece conoscere il pensiero di Jung. Contestò la riforma della liturgia decisa dal Concilio Vaticano II e si avvicinò al rito bizantino che le sembrava meglio corrispondere alla sua sete di assoluto, che cercò di soddisfare attraverso l’interesse per la metafisica orientale.  La maggior parte delle opere  della Campo (edite dalla casa editrice Adelphi) fu pubblicata postuma grazie all’affettuosa attenzione dell’amica Margherita Pieracci Harwell. E’ quest’ultima la destinataria delle Lettere a Mita (pubblicate sempre da Adelphi), testimonianza di un’amicizia intensa e profonda al punto da trasformarsi in comunione spirituale.

Il ricordo di Pietro Citati

Era, è ancora Citati che la ricorda così, una “creatura estrema”, una “Clorinda ignara di prudenze e di mezzi termini”. Adorava le forme e i gesti perfetti. Il tempo di decadenza in cui visse la sospingeva a cercare “il dio nascosto dietro tutti gli dei visibili”: “Amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero tempo della fiaba. Questa è l’era della bellezza in fuga, della grazia e del mistero sul punto di scomparire: tutto quello cui certi uomini non rinunziano mai, che tanto più li appassiona quanto più sembra perduto e dimenticato”.

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