Gabriele D’Annunzio e i valori della cultura di destra: la festa dei 160 anni è orgoglio e identità
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Ricorre quest’anno l’anniversario dei 160 anni dalla nascita di Gabriele D’Annunzio, celebrato in queste settimane da incontri e iniziative anche nel suo Vittoriale degli Italiani a Gardone.
Affascinato da Nietzsche e aggiornatissimo sulle novità poetiche del simbolismo francese, D’Annunzio fu in grado di coniugare, entro il suo stile letterario e poetico inconfondibile, le più diverse sollecitazioni della cultura al volgere del secolo, preannunciando, nell’Italia del realismo e del naturalismo, la modernità. In questo senso, per la qualità dell’opera, l’intelligenza e l’estro avveniristico, la sua vicenda artistica può accostarsi a quella di un altro spirito magno, Giacomo Puccini, grande modernista italiano con il quale il poeta fu a un passo dal collaborare, se non fosse stato per la sensibilità particolare del Maestro lucchese che non se la sentì di accostarsi ai preziosismi dell’universo poetico del Vate.
Dal puro estetismo de Il piacere, scritto appena ventiseienne, l’opera di D’Annunzio maturò più tardi nelle pagine del romanzo Il fuoco, ove fece affiorare l’idea di un dramma capace di fondere insieme le diverse espressioni artistiche per rispecchiare la nascita della stirpe latina, un intendimento che egli aveva espressamente derivato dall’amore per Wagner, che nei suoi drammi lo aveva applicato per dipingere invece le gesta dei germani. Ma fu con il singolarissimo Notturno (pensieri riuniti in quel buio prescrittogli per la convalescenza della ferita all’occhio subita durante la guerra) e con le Poesie che seppe affascinare i grandi del suo tempo, da Hofmannsthal fino a Thomas Mann e Walter Benjamin che nel pensiero del Vate avevano colto una forma di estetizzazione della politica che avrebbe poi in parte ispirato il fascismo.
Che D’Annunzio, la cui figura affiora certamente nella pleiade dei pensatori della Destra, sia stato un conservatore è oggi opinione consolidata. Tuttavia l’essere conservatore si coniugava in lui con l’attitudine di uno sguardo, quale fu il suo, sempre proteso in avanti. Si può dire che la postura del D’Annunzio maturo ci appare oggi come quella di un conservatore rivoluzionario, una contraddizione in termini che si rivela però necessaria per configurare anche i caratteri strettamente politici dell’impresa fiumana. A guerra terminata, infatti, l’eroe pluridecorato, alla guida di un gruppo di legionari reduci da quella che ritenevano una «vittoria mutilata» per la mancata annessione di Fiume all’Italia, occupò la città istriana assumendo il ruolo di Reggente dal settembre del 1919 fino al dicembre del 1920, quando fu costretto a ritirarsi e a rinunciare all’impresa. In quell’arco di tempo l’occupazione dannunziana della città di Fiume si fece promotrice di ideali utopici per una nuova società che avrebbe dovuto essere in grado di riscattare le lotte degli oppressi nel quadro di una prospettiva politica assolutamente nuova. I caratteri della forma governamentale della città di Fiume confluirono in quel testo, ideato da Alceste De Ambris ed elaborato da D’Annunzio, che prese il nome di «Costituzione del Carnaro», una Carta ancor’oggi interessantissima da studiare poiché, con i suoi ideali di democrazia diretta fondata sul lavoro produttivo, sulla sovranità collettiva, sull’armonica convivenza dei soggetti giuridici e politici e sull’ideale più alto che è quello della libertà, contiene pagine anticipatrici della Costituzione Italiana. Tra i diritti menzionati colpisce quello «alla bellezza», dunque alla Cultura intesa come irrinunciabile strumento di formazione e crescita spirituale dell’uomo libero. Ed è proprio tra queste righe che l’utopia fiumana di D’Annunzio affiora con i suoi caratteri conservatori e rivoluzionari a un tempo. L’impeto libertario della Carta fu certo rivoluzionario, ma lo fu, e compiutamente, perché fondato sulla memoria del grande Passato, elemento imprescindibile per il pensiero di ogni conservatore. Nel testo risuonava l’eco della democrazia di Atene – nata secondo Aristotele attraverso l’assoluta politicizzazione dei cittadini, ossia il loro effettivo coinvolgimento diretto nella vita della polis -, così come l’esempio dell’ordinamento degli antichi governi comunali del Medioevo.
Al termine dell’avventura di Fiume, scontento e amareggiato per la rinuncia impostagli dal trattato di Rapallo, il poeta si sarebbe infine ritirato nella villa di Gardone, alla luce del lago di Garda dalla quale volle però ripararsi attraverso il dedalo buio e preziosissimo dei lussuosi interni.
Ciò che oggi occorre non dimenticare di D’Annunzio, a maggior ragione in un momento in cui l’ordine esistente pretende di dissolvere e superare l’identità e le radici dei popoli, è il suo attaccamento alla Patria, alla Nazione, alla lingua e alla Cultura della propria Terra: la nostra. In capolavori come La sera fiesolana o l’immortale Pioggia nel pineto (entrambe nelle pagine dell’Alcyone) si coglie la lezione altissima di Dante e, forse ancor più, di Petrarca, una lezione inconfondibilmente italiana. Al di là di ogni retorica, si tratta di un patrimonio di valori a cui ogni cittadino italiano, e soprattutto ogni giovane, non può rinunciare.
*Nato a Parma, compositore, direttore d’orchestra e studioso