Lingua italiana, il presidente della Crusca D’Achille: “Inaccettabile che gli enti pubblici usino l’inglese”
È “normale” che le parole inglesi entrino nella lingua italiana, è però “inaccettabile” che a farne uso siano gli “enti pubblici, che si rivolgono all’intera cittadinanza”. A dirlo è stato il professor Paolo D’Achille, nuovo presidente dell’Accademia della Crusca, che di fatto dà ragione alla battaglia di Fabio Rampelli per il “diritto alla comprensione”, che vede il suo punto focale proprio nel freno dell’uso dell’inglese negli atti pubblici.
Ecco perché gli anglismi entrano nelle altre lingue
D’Achille, intervistato dal settimana Toscana Oggi, non si scandalizza per il sempre maggiore uso di anglismi nella nostra lingua. “Le parole straniere entrano in un’altra lingua in rapporto al prestigio della lingua da cui provengono e – ha spiegato il presidente dell’Accademia della Crusca – si parla, impropriamente, di prestiti. Se l’inglese, o meglio l’angloamericano, è oggi dominante in tutto il mondo, ciò deriva dal fatto che i Paesi anglofoni sono all’avanguardia in certi settori (e certo la globalizzazione aiuta a diffondere tanto l’inglese in generale quanto gli anglismi), è normale che il numero degli anglismi cresca anche nella lingua comune”.
Il presidente della Crusca: “Inaccettabile che gli enti pubblici usino l’inglese”
Dunque, nulla di cui stupirsi. Altra cosa è invece che quelle parole siano usate dalle pubbliche amministrazioni, poiché questo rischia di marginalizzare una parte della popolazione. D’Achille, quindi, ritiene “inaccettabile” che “ricorra spesso all’inglese anche la comunicazione degli enti pubblici (nazionali o regionali), che si rivolgono all’intera cittadinanza, composta di molte persone che non conoscono l’inglese”. Una prassi oltretutto priva di senso, perché “ricorrere all’inglese quando abbiamo già le parole per esprimere gli stessi concetti mi pare inutile”.
C’è neologismo e neologismo
Quanto ai neologismi, che sono sempre più frequenti, il presidente dell’Accademia della Crusca ha chiarito che “le neoformazioni costituiscono la maggior parte del lessico di ogni lingua e che si ricorra a neologismi per esprimere nuovi concetti e indicare nuovi oggetti è normale”. “Ci sono però parole ben formate, e quindi trasparenti anche a chi non le ha mai sentite prima, e parole mal formate, destinate per lo più a esaurirsi. Si parla ancora del caso di ‘petaloso’, risalente a vari anni fa: se quella parola non ha attecchito è perché, pur essendo ben formata, era inutile in quanto tutti i fiori, per definizione, hanno i petali, e li hanno solo loro”.
La lingua italiana sta “abbastanza bene”
In generale D’Achille ritiene comunque che lo stato di salute della lingua italiana sia “abbastanza buono”, sebbene risenta di un indebolimento legato all’uso di internet. “La lettura su Internet è oggi diventata predominante. E il nuovo mezzo ha avuto conseguenze anche per la nostra lingua: l’ha semplificata nelle strutture sintattiche, il che – ha commentato il professore di linguistica italiano a Roma Tre – potrebbe anche essere un fatto positivo, ma l’ha anche un po’ impoverita, perché la fretta della composizione e l’assenza di rilettura porta spesso a usare frasi fatte, ad adoperare parole con un significato approssimativo, a non dominare appieno l’impianto testuale e informativo”.
Quello che va e quello che non va
Al netto di questo, comunque, l’italiano non se la passa poi così male: “È ormai madrelingua per la maggior parte della popolazione, che in passato, invece, nasceva dialettofona, compresi i figli di immigrati ormai stabilizzati nel nostro Paese. Abbastanza soddisfacente, anche in rapporto alle limitate risorse, lo studio dell’italiano all’estero”. “Però – ha avvertito D’Achille – i dislivelli di competenze linguistiche presso i giovani aumentano, in rapporto alle diverse classi sociali e la scuola sta un po’ perdendo il suo ruolo di ascensore sociale, forse anche perché lo studio della lingua e della letteratura italiana non è più considerato centrale”.
“Si sta poi allargando la forbice tra la lingua di oggi e la lingua del passato, della tradizione letteraria che fa capo a Dante; è necessario – ha concluso – un maggior dialogo intergenerazionale e bisogna che l’insegnamento/apprendimento della lingua, anche nelle sue strutture grammaticali, e della letteratura italiana, adeguatamente rinnovato, sia più gratificante per docenti e discenti”.