Pnrr: il governo, i controlli, i “poteri forti”. E la lezione sempre attuale di Pinuccio Tatarella
Con i “poteri forti” si tratta. È la lezione che viene dal vicepremier nel primo governo di centrodestra, Pinuccio Tatarella. Non metteva nell’elenco, ma solo per sintesi, la Corte dei Conti; Bruxelles sì: ma lo sono ambedue, molto. Lui aveva capito: “Per i poteri forti è meglio avere la sinistra al governo piuttosto della destra. Perché alla sinistra concedono quattro parole, si dichiarano progressisti, si cospargono di illuminismo, citano Bobbio, partecipano a qualche dibattito altamente filosofico e la sinistra cade, cade sempre nel tranello” (La Stampa, 10 agosto 1994).
La lezione di Tatarella sui “poteri forti”
E ha lasciato alla destra che oggi guida il governo una lezione: “Quando uno che rappresenta i poteri forti ha un parere, questo parere deve essere conosciuto. Questo è l’adeguamento alla democrazia in diretta”. Ecco: io credo che Giorgia Meloni stia seguendo questo “consiglio” che viene da un’intelligenza remota, ma attuale. A me pare questo il significato politico della riunione con i vertici della Corte dei Conti a Palazzo Chigi, dopo più dichiarazioni sul Pnrr, un po’ fuori binario; dei giudici. Un inedito o quasi, se capisco bene. Meglio della puntuale – e puntuta – replica del governo che il portavoce di Bruxelles ha dovuto incassare. Partita risolta con l’Ue. Va bene: allora possiamo fare rientrare l’incontro con i vertici della Corte nel bon ton tra uomini delle istituzioni ? O anche nei rapporti di “leale collaborazione” tra organi dello Stato? Certo. Ma io preferisco la lettura politica di cui sopra. Mia, mia; molto personale, naturalmente.
Le critiche alla Corte dei Conti
Che però tiene conto di ciò che dice Sabino Cassese, tanto bersagliato da Marco Travaglio, vedo. Il Prof, alla fine del suo ragionare ad alta voce al Festival dell’Economia, fa questo ammonimento: “La Corte dei Conti ‘chiede un tavolo di confronto con il governo sull’adozione di una legge’. Tavolo di confronto è l’ espressione che adoperano normalmente i sindacati nei confronti dello Stato. La può utilizzare quello che è uno dei più grandi corpi dello Stato? Se si accetta questo tipo di terminologia non si finisce per riconoscere che lo Stato è diventato una specie aggregazione di corporazioni, di interessi e che quindi ha perduto ogni capacità di decisione?”. Un po’ forte, eh. E la seconda osservazione è di Giuseppe Salvaggiulo nel fortunato libro Io sono il potere (Feltrinelli), scritto a quattro mani con un capo di gabinetto; rimasto anonimo per i più: ma so che è uno che “sa”. Nel glossarietto del volume, la voce “Corte dei Conti” viene trattata con l’arsenico, manco le pagine avvelenate de Il nome della rosa: “Non si è mai capito come si sia formato un così immenso debito pubblico pur essendoci, dal 1862, un organo che vigila sui conti delle amministrazioni e sulla spesa pubblica”. Proprio brutta. La terza è di Antonio Padellaro, che di solito apprezzo molto, ma non so se mi autorizzano a esprimere un giudizio anche sulla recensione del fortunato libro; dove spara a zero sul “clero dominante” dentro cui sbatte i giudici contabili che “davanti al progetto illustrato dal premier per rendere più rapide ed efficienti le procedure di assegnazione delle opere e degli appalti – denuncia – hanno fatto trapelare il loro dissenso, paventando illegalità, corruzione, sperpero del pubblico denaro. Ragioni più o meno fondate che non cancellano la sensazione di un meccanismo di autodifesa corporativa: se i chierici non servono più la messa, a cosa servono?” (Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2020).
L’oblio di Conte: lo “scudo erariale” è suo
Cattivo. Solo che il premier per il quale Padellaro si impegna in questa strenua difesa non è Giorgia Meloni – sono (quasi) certo lo farebbe anche per lei – ma Giuseppe Conte. Il quale però o vive di oblio, o soffre di una crisi di identità. Conte attacca la Meloni così: “Gravissimo: delitto di lesa maestà del governo!”, perché – sostiene il leader del M5S – “ha pensato bene di presentare un emendamento per far saltare questo ‘controllo concomitante’ della Corte dei Conti su come vengono spesi i soldi del Pnrr”. E promette battaglia: “Ci opporremo con tutte le nostre forze”. Ma è lo stesso Conte che, da premier dell’esecutivo “giallorosso”, rifiutò un incontro chiestogli da Angelo Buscema, oggi giudice della Consulta, al tempo alla guida della Corte dei Conti. Il quale, allora, inviò una lettera al Presidente Mattarella lamentando che la riforma di Conte si poneva “in contrasto con i principi costituzionali, creerebbe un’area di immunità per attività gravemente negligenti o imprudenti che implicano sempre un dispendio di risorse pubbliche”.
Macché scandalo: la Meloni ha solo prorogato le norme di Conte e Draghi
Era esattamente la norma che sanciva l’esclusione della responsabilità per colpa grave di amministratori e funzionari: il cosiddetto “scudo erariale” per rassicurarli dalla “paura di firma” e accelerare gli interventi del Pnrr. Lo “scudo” lo ha introdotto proprio il Conte 2 – ministro dell’Economia era il dem Gualtieri e c’era pure il gran parlatore Francesco Boccia – con decreto-legge 76/2020, prorogato dallo stesso governo e poi da Draghi fino a tutto giugno di quest’anno. La Meloni si è limitata a confermare le disposizioni varate dal governo giallo-rosso. Incredibile? Sì, è incredibile. E l’attuale esecutivo ha pure prorogato la norma su controllo successivo e non “concomitante” che era stata fatta dallo stesso Draghi. Di che parliamo, allora? Dov’è lo scandalo? Ciò che è stato consentito ai due gabinetti precedenti, perché dovrebbe essere vietato al governo Meloni? Perché l’esecutivo in carica dovrebbe perdere un fattore di speditezza abrogando leggi che sono in vigore da anni?
Certo, certo: con i “poteri forti” si tratta, ragazzi miei. Giusto. Giustissimo.
La Bicamerale D’Alema: riformare il sistema dei controlli
Ma al polo progressista “cortigiano” va sbloccata la memoria. Adesso, ricordate la commissione D’Alema sulle riforme istituzionali? Che c’entra? Come che c’entra? C’entra, c’entra. Eccome. Per la Corte dei Conti, la relazione, approvata da tutta la Commissione, preparata da Marco Boato (Verdi) – non proprio un “destro” – prometteva una radicale revisione del suo ruolo e soprattutto delle sue funzioni di controllo. Nella formulazione del nuovo articolo 113 della seconda parte della Costituzione, si pensava di togliere del tutto alla Corte il “controllo di legittimità”, in atto previsto dall’articolo 100 dell’attuale Carta, per passare “ad una nuova e più moderna prospettiva volta, invece, al controllo successivo dell’efficienza e dell’economicità dell’azione amministrativa. Si deve d’altra parte sottolineare che il testo approvato non fa riferimento al parametro di controllo dell’efficacia, previsto da alcuni emendamenti non accolti, in quanto tale parametro – continuava il testo – avrebbe presupposto in capo alla Corte dei Conti lo svolgimento di valutazioni di merito tali da coinvolgere responsabilità di natura politica che non possono che spettare ad organi responsabili e legittimati politicamente”. Il problema era ben chiaro a quella Bicamerale (1997-1998) presieduta da Massimo D’Alema, leader del Pds, con vice proprio Pinuccio Tatarella (An).
La relazione-Boato sulla Corte dei Conti
“La Corte dei conti è quindi chiamata ad una grande sfida per contribuire alla crescita del Paese, ed è certo che un istituto di così grandi tradizioni – si legge ancora nella relazione Boato – saprà raccoglierla e affrontare nel migliore dei modi le difficoltà che un cambiamento di tali dimensioni richiede, non solo in ordine alle strutture ma anche alla mentalità ed alla professionalità dei suoi componenti. In questa rinnovata prospettiva – concludeva con un pizzico di seria ironia – sarà sicuramente superata la comprensibile tentazione della difesa di posizioni e competenze (quali il controllo di legittimità formale del singolo atto che troppo spesso non serve ad altro se non a ritardare inutilmente l’azione della pubblica amministrazione, quando non è strumentalmente utilizzato per interferire con l’esercizio di altre responsabilità) che riflettono esigenze non più primarie per uno Stato moderno, il quale deve affrontare la sfida della complessità e funzionalità dell’apparato pubblico nella prospettiva europea e della globalizzazione”. Chiaro, no ?
O controllori o giudici: separare le funzioni
La politica sa da tempo che il problema dei controlli – e dei controllori – esiste e che è, appunto, un problema. Il presidente del Consiglio e il ministro Fitto sanno bene di che parlano, quando trattano la materia della vigilanza sulle risorse del Pnrr. E la Corte sa anche che la prossima riforma delle istituzioni dovrà affrontare la questione dell’unicità o meno della giurisdizione. La quale si riassume nell’idea “politica” – era stata già adottata dalla Bicamerale – che, in futuro, un qualsivoglia giudice non può e non deve esercitare sia funzioni giurisdizionali, sia funzioni di controllo (o consultive): occorre separare le une dalle altre. In altri termini: la Corte non dovrebbe controllare e insieme giudicare l’amministratore o il funzionario pubblico che “firma”. Il che è esattamente ciò che oggi fa; ovvio, a Costituzione vigente (articoli 100 e 103).
Una riforma che va oltre il Pnrr: in ballo c’è il sistema di garanzie del cittadino
Quella della prossima riforma sarà quindi una scelta importante, perché va oltre la vicenda del Pnrr e influisce sul sistema delle garanzie del cittadino. Ma il discorso ci porterebbe molto più lontano da dove siamo partiti. Io resto al politico. Con i “poteri forti” si tratta. Ciò vale ancor più per un governo nuovo, a guida di un premier di destra. Che ha ben chiaro che “lo scettro ce l’hanno i cittadini. E con il voto l’hanno affidato a questo governo. I poteri forti non sono stati scelti dai cittadini: ma erano abituati a tenere lo scettro nelle loro casseforti. Oggi lo abbiamo noi e non abbiamo nessuna intenzione di cederlo”, come osservava quel vicepremier di destra, quasi trent’anni fa. Il senso politico di ciò che accade oggi è tutto qui. Con una differenza rispetto ad allora: oggi a Palazzo Chigi c’è un presidente del Consiglio di destra. Giovane. Donna. Determinata. E nella sua formazione c’è una consapevolezza che viene da più lontano; si vede.