Barbie fascista o Barbie femminista? Perché tutti parlano del film-fenomeno di Greta Gerwig

24 Lug 2023 12:30 - di Annalisa Terranova
Barbie

Su una cosa possiamo tutti concordare: il film Barbie, che si vada al cinema in vesti rosa confetto o no, è un fatto di costume. E come tale crea divisioni, intersezioni, sovrapposizioni e anche – come sempre – opposte curve ideologiche. Intanto, ha riportato in auge il colore rosa. E non è cosa di poco conto.

Il rosa infatti è visto dalle femministe come fumo negli occhi. Torniamo indietro di dieci anni: nel 2013 fu inaugurata a Berlino la Dreamhouse, la casa di Barbie a grandezza naturale che aveva già debuttato in Florida. 2500 metri quadri dove i bambini sono abbagliati da un rosa spumeggiante, da un arredamento lezioso e da suppellettili caramellose. Troppo rosa per i gusti delle femministe che coniarono lo slogan: “Il rosa puzza”. Puzzava il rosa, secondo loro, e puzzava anche Barbie. Troppo bella, troppo perfetta e troppo bionda. Barbie sarebbe troppo sexy, una proiezione giocattolo della donna-oggetto, colleziona troppi vestiti e le ragazzine giocando con lei pensano che il compito di una femmina sia solo quello di piacere, divertirsi, fare shopping e cambiarsi spesso d’abito. Ma il top degli argomenti contro Barbie fu raggiunto dal gruppo ‘Pinkstinks’ la cui fondatrice spiegò che Barbie veicolava la cultura nazi. In pratica, era una bambola troppo “ariana”. Così a Berlino le femministe convenute all’appuntamento di Occupy Dreamhouse bruciarono la povera Barbie fonte di ogni nefandezza.

Oggi è tutta un’altra storia: alla premiere del film sull’odiata bambolina con outfit rosa sgargiante c’è andata pure la ex di Damiano dei Maneskin, Giorgia Soleri. La quale conduce battaglie mainstream sul diritto di non piacere agli altri. Prima di lei era stata la femminista Alida Brill a far notare che le bambine giocando con la Barbie non pensavano più che il loro destino da grandi fosse quello di dare il biberon a neonati con le gote rigonfie come i bambolotti che portava Babbo Natale. Tra l’altro il rosa non meriterebbe, di suo, tutto questo sdegno: più che risultare come discriminante di genere, infatti, è il risultato dell’annacquamento del rosso, il colore dell’amore e della passione, il colore con cui ci si sposava nel Medioevo prima che il più rassicurante bianco giungesse a dominare le cerimonie nuziali.

Ma resta, nel film, l’eco di quell’accusa di fascismo perché la regista Greta Gerwig ha voluto anche fornire una panoramica di quali siano state le interpretazioni della bambola-icona nel tempo. Dunque abbiamo la solita adolescente ribelle e rompiscatole che accusa Barbie di essere fascista in quanto prodotto del consumismo capitalista. Al che lei risponde con la battuta: “Ma io non mi sono mai occupata di treni“. A stereotipo si replica con un altro stereotipo, quello secondo cui il fascismo è stato solo il regime che imponeva a i treni di arrivare in orario. Un dato su cui ha insistito sul Giornale Alessandro Gnocchi per bollare il film come asservito alla cultura woke.

Altro punto su cui tutti sono d’accordo: l’interpretazione magistrale dei protagonisti Margot Robbie (Barbie) e Ryan Gosling (Ken). Ma appunto è la sovrastruttura ideologica che bisogna grattare via per godersi lo spettacolo. Lasciando ai critici più egotici il compito di filosofare su come nel grande schermo viene trattata la fuoriuscita di Barbie dalla sua “bambolità”. Un cammino che sarà pure di autodeterminazione ma comporta sempre un po’ di dolore.

Il rapporto tra mondo dei giocattoli e realtà umana è stato già egregiamente trattato nella trilogia Pixar di Toy Story e proprio in quei film, nel terzo in particolare, Barbie è tutt’altro che una bambola svampita trasformandosi in una eroina che – come annotava Christian Uva nel suo bel saggio Il sistema Pixar – “svolge una funzione cruciale nel ribaltare il regime dittatoriale instaurato nell’asilo dal perfido Lotso”. Questo per dire che il terreno della Barbie rivoluzionata era già stato ampiamente arato.

Si è parlato del film come una pellicola anti-men, che denigra i maschi, presentando Ken come un buono a nulla, un fannullone-bamboccione. Sì, c’è la la lotta al patriarcato ma alla fine – ha scritto un altro critico, Andrea Parrella – il conflitto tra generi si risolve in un inno alla parità, senza prevaricazioni dell’uno o dell’altro sesso. Il film è piaciuto anche a Gay.it perché si sottrae al compito di tratteggiare “identità sessuali” di questo o quel personaggio: si tratta di bambole – ha chiarito Margot Robbie – senza impulsi sessuali in quanto non possiedono organi riproduttivi. Allora, alla fine, potrebbe trattarsi solo di una gigantesca operazione di marketing, dove ogni sensibilità trova la sua nicchia in cui accucciarsi e godersi un film con tempi comici azzeccati. Il merchandising di contorno era prevedibile e scontato. Il frutto forse non immediato ma sicuramente ricercato sarà quello di rilanciare sul mercato una bambola che era ormai oggetto di culto solo per collezionisti, nonostante il suo adeguarsi ai tempi con la Barbie curvy o con quella dotata di velo islamico.

Ma il film incuriosisce per forza in virtù della domanda di fondo da cui scaturisce l’idea, il progetto: cosa accade all’inanimato che prende coscienza, alla materia che incontra l’umanità? Il che può avvenire nella dimensione giocosa di Barbie o in quella terrificante di Frankenstein ma ridotta all’osso la questione resta sempre la stessa. Ed è, anche se in una dimensione postmoderna, sempre una questione di coscienza.

 

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