Carlo Emilio Gadda, uno scrittore dimenticato perché anti-ideologico. La scrittura come “vendetta”

21 Set 2023 8:01 - di Antonio Saccà
Carlo Emilio Gadda

A quanto appare, dominano gli anniversari di scrittori “ideologici”. Quand’anche  ideologismi rabberciateli o confusetti, ma che rumoreggiano e sono di facile comprendonio. Che so: Tizio fu contro la società dei consumi, Sempronio si indaffarò nella parità di genere e  a favore della varietà degli orientamenti sessuali. Imperversa questa fusione, eredità dell’artista impegnato oggi accresciuto dalla potenza della comunicazione. Ne viene che scrittori i quali si dedicarono alla “forma”, ossia alla efficacia espressiva, sono riposti in cantina e dimenticati. Il cinquantesimo anniversario della morte di Carlo Emilio Gadda ((1893-1973) riceve, così, un silenzio desertico. Ne rievoco  la presenza anche perché ha degli aspetti originali. Credo che questo ricordo di Carlo Emilio Gadda interesserà in modo particolare. Scrivo su di un uomo che ho ben conosciuto…non conoscendolo.

In verità, non è che non l’abbia conosciuto, ma l’ho conosciuto in modo così stravagante, irregolare, che dire “ho conosciuto” o “non ho conosciuto” sono espressioni inadeguate. Se la memoria non fallisce, vi era una cerimonia per la morte fulminea, inattesa di Giacomo Debenedetti. Debenedetti aveva ruoli  molteplici, impegnato con la Casa Editrice Mondadori, docente  universitario. Prima della morte era stato giudicato “non idoneo” al “ruolo” da una commissione di docenti perché non “scientifico”. Giacomo, ormai in età, sapeva che quel concorso rappresentava l’ultima speranza di giungere  all’ordinariato. E ne patì fortissimamente. Ebbe un colpo al cuore, nelle festività di termine d’anno in casa di Rafael Alberti. Eppure, alquanto irrigidito, poggiato ad una parete, mi continuava a parlare. Alla sua morte, il figlio Antonio  mise in capo la kippa, intervenne tutta l’intelligenza di sinistra, e non solamente, Giacomino veniva considerato un saggista letterario raffinato, capace di cogliere i meandri psicologici di un Proust, di uno Svevo, addentrato nella psicoanalisi, persino. Io avevo recensito su “Paese sera” un libro  di Debenedetti, che mi conosceva per il mio saggio su “Nuovi Argomenti”. Oltretutto vivevo con Elsa  de’ Giorgi, attrice e scrittrice  amica di Giacomo, della moglie, Renata, e dei figli Antonio ed Elisa. Sicché che c’era modo doppio di incontrarci.

L’incontro con Gadda

Carlo Emilio Gadda torreggiava nella sala in cui avveniva la cerimonia funebre di Giacomo Debenedetti. Alto, diritto, non magro ma non appesantito, robusto, da uomo che contiene  un corpo consistente, montanaro o da campagnolo incivilito. Il largo faccione con tratti ben scanditi, ampio naso, larghi occhi, fronte che spogliava la testa di capelli e appariva vasta, un’aria inquieta, con movenze del capo e dello sguardo quasi a sorvegliare da ogni lato. Si girò verso di me che mi giravo verso di lui, incrociammo lo sguardo, muovendo qualche passo l’uno verso l’altro, fermandoci. Tornammo al nostro posto, a seguire la cerimonia. Che ci aveva fermato? Il timore di un saluto in una manifestazione funebre? No. Semplicemente il fatto che ci stavamo venendo incontro…senza conoscerci. Una spontaneità che arrestammo, rendendoci conto che, dicevo, non ci conoscevamo.

L’ossessiva educazione formale

Dire che non ci conoscevamo non costituisce la verità, io sapevo benissimo che quell’uomo corpulento era Carlo Emilio Gadda, ed Egli di certo mi aveva visto e aveva saputo di me, perché, l’ho detto, il testo su “Nuovi Argomenti” mi aveva risaltato. E allora? E allora, era il caso di salutarci conoscendoci senza presentarci? Evidentemente, era il caso. Ma per una vicendevole idiosincrasia, non so se dovuta, ripeto, alla cerimonia, non ci salutammo. Gadda continuava a starsene irrigidito, e guardingo. Lo notavo anche involontariamente, giacché mi stava parallelo, a qualche metro distante. Era dunque realmente come mi avevano detto suoi amici, e molto di più negli anni a venire mi avrebbero detto: un uomo sospettoso, inquietissimo, capace di voler chiarire per ore  una parola detta, sempre sull’orlo dell’equivoco, del timore di aver sbagliato e di spiacere, e, perciò, con una forzata cortesia, un’esagerata educazione formale, come è tipica dei nevrotici ossessivi che si colpevolizzano e “bloccano” la loro aggressività con ritualismi rigorosi, tanto più rigorosi quanto maggiore è l’aggressività trattenuta.

Vigore e fragilità

Che aveva da temere, Carlo Emilio Gadda? Scorgendolo attento, con gli occhi mossi ai lati, era palesemente un uomo che concepiva che gli sopravvenissero eventi sfavorevoli. Mentre il corpo, alto, ben piantato, ritto dimostrava vigore e salute; poi quel viso largo, esposto, nudo, e gli occhi vasti, chiari, apprensivi  ne svelavano fragilità, timore di incombenze rovinose, quasi che gli altri e il reale non gli fossero benevoli. Si girò ancora dalla mia parte e mi guardò, ma stavolta non accennò verso di me, anzi lo sentii indurito, ostile. Forse, non avendolo io salutato o accettato di essere salutato, mi riteneva un nemico? Così facilmente? Così irragionevolmente? A mia volta immaginai che egli sapesse che io non avevo scritto di lui nel mio saggio, e quindi si era frenato dal salutarmi e mi guardava ostilmente per tale motivo. Che facevo, diventavo di mentalità “gaddanesca” pure io?

La morte del fratello in guerra

Mi rimaneva impresso quanto egli aveva narrato sulla guerra, la Prima Guerra Mondiale, e peculiarmente sulla morte del fratello: un’estirpazione, un tirar via di colpo le radici dell’esistenza. La morte del fratello fu per Gadda la morte in vita della vita, credo che “dopo” egli sopravviveva, ma la ragione di vita gli si era amputata. Accade che una persona nel mare degli uomini sia costitutiva. Gadda risiedeva nel fratello. Del resto, nelle sue memorie di guerra, più che dirlo lo fa sentire. Chi sa, quel suo sguardo errante di timori forse veniva dalla persistenza di quella notizia. Un giorno, un momento preciso di un giorno gli avevano detto che il fratello era morto. E da quel giorno ogni dolore era possibile.

Si girò verso di me, cercai il suo sguardo, ma negli occhi di Gadda non c’era sguardo, mi aveva dissolto, non voleva avere a che fare con una persona non amica(!). Certo, io interpretavo Gadda, e stabilivo una successione di stati d’animo: buona disposizione, delusione, avversione, negazione. In effetti i suoi occhi ebbero uno sguardo vuoto, a vuoto, come se rinunciassero a vedere una realtà che lo intristiva. Lo colsi, poi, a tenere le mani con le braccia stese, il volto chinato, gli occhi stretti, solo, ben stagliato. Quante me ne raccontavano e raccontarono gli amici di Gadda sul “Gran Lombardo” o l’Ingegnere come veniva chiamato! Come“personaggio” favoloso, oggetto di favoleggiamenti. Eugenio Montale gli si confrontava. Si era stabilito a Roma. Per quanto i massimi critici lo esaltassero, in specie Gianfranco Contini, e i massimi scrittori lo apprezzassero, non era né celebre né benestante. Lo accennavo, un ingegnere, di nascita lombarda, lavorava come da laurea, anche in paesi stranieri, ma, dopo, alla Rai. Gadda, credo fosse umiliato dal non essere un uomo dal sicuro reddito e per non aver nome considerato esclusivamente in cerchie di qualità ma sparute. E questo lo esponeva a rapporti inadeguati. Una sera, in un ricevimento, un funzionario della Rai disse a Gadda che il giorno successivo si presentasse in ufficio di buon’ora o qualcosa del genere, in tono di superiore.

La parola come “vendetta”

Alberto Moravia, presente, si adirò e con la voce acutissima che gli sorgeva nelle arrabbiature sgridò il funzionario, che non doveva permettersi di usare quel modo con uno scrittore quale Carlo Emilio Gadda. Tuttavia non è a dire che Gadda non si vendicasse di suo: lo faceva nella scrittura; la sua timidezza, la ritrosia, nell’esistenza immediata, venivano scardinate e irrompeva a getto sulla pagina tutto il “fegatume bilioso” che lo intossicava vivendo. Fermentava acrume, ed egli lo restituiva al prossimo, sul prossimo con un linguaggio escrementizio, vomitoso, deformante, storpiatore, azzoppato, carognoso, stricninico, spregiativo, che non aveva riguardo per madre e padre, duci e borghesi, tutti sconciati come in un quadro espressionista o lo sghimbescio di Picasso.

L’uso beffardo delle parole

Gli uomini dovevano pagare d’aver terrorizzato Carlo Emilio Gadda, e se nella vita si faceva manierato quanto un giapponese, nelle pagine si rifaceva inventando un linguaggio che non lo distanziava dai cinquecentisti  maccheronici e certo con un sarcasmo non goliardesco anzi rancoroso. Il piccolo borghese trova in Gadda un’epica viscerale, la rivalsa dalle subordinazioni con il turpiloquio, le invettive. È  l’impotenza che si risarcisce  con lo sparlare. In mano a Gadda non vi erano che le parole, ed egli ne fa impiego irriverente, beffardo, blasfemo, schizzinoso, cloacale, deformante, urinoso, disossativo: si tratti del Duce e del fascismo. In “Eros e Priapo”, del clima verbale romantico, segnatamente del Foscolo; della figura materna in “La cognizione del dolore”, o della corruzione della media borghesia romana in “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”. Tutta una ricostruzione gaddesca della lingua patria, non ricorrendo al gergo borgataro come Pier Paolo Pasolini ma con innesti sincopati tra parole: ne viene una espressività personale, umorale, tutta spregio e vendetta.

Un uomo dolente

Gadda colse il velleitarismo verboso del piccolo borghese , colui che si rifà con le parole, dandogli voce e un’invenzione linguistica, che, oltretutto, fu una via di scampo alla questione del trovare forme espressive e non ridurre l’arte alla comunicazione. Fu un uomo dolente, con qualcosa di insanabile, gli amici  lo amavano, lo stimavano, si profittavano dolcemente del suo candore, specie in fatto di donne, che Gadda pare non avesse a garbo. Gliene combinavano e poi le raccontavano. Goffredo Parise, Giulio Cattaneo ne sapevano da mille e una notte. Un personaggio, una vela in balia del vento dell’esistenza, il quale trova la sua difesa, il suo porto nella parola, come una pietra scagliata contro l’aria. Conobbe il cosiddetto successo con “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”. Morì ottantenne, il 21 maggio del 1973.

 

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