Covid, i geni Neanderthal dietro le forme gravi: lo studio del Mario Negri spiega cos’è successo in Val Seriana
“Perché qualcuno si ammala in modo grave e qualcun altro in modo lieve?”. È la domanda che si sono posti i medici e i ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano, di fronte all’incidenza di casi gravi di Covid nell’area di Bergamo e in particolare della Val Seriana nella prima fase della pandemia. Una domanda cui hanno cercato di rispondere con lo studio Origin, presentato oggi a Milano dal direttore dell’Irccs Giuseppe Remuzzi, insieme al presidente della Regione, Attilio Fontana, e all’assessore al Welfare, Guido Bertolaso. Dalla ricerca, che ha preso in esame un ampio numero di campioni, è emerso il ruolo del “gene Neanderthal”, arrivato fino a noi da 50mila anni fa, e capace di raddoppiare la possibilità di contrarre una forma grave della malattia e causare la morta in assenza di altre patologie.
Il ruolo della predisposizione genetica nelle forme gravi e letali di Covid
“Nel mondo le vittime del cromosoma di Neanderthal, fra i morti Covid, sono forse 1 milione e potrebbero essere proprio quelle che, in assenza di altre cause, muoiono per una predisposizione genetica. Secondo un calcolo fatto sui nostri dati di Bergamo, il 15% del totale dei morti Covid sono morti non per altre cause, ma per qualcosa che si potrebbe spiegare con dei geni” di rischio, ha chiarito Remuzzi, riferendo che Origin ha dimostrato come, nei residenti delle aree più colpite della bergamasca, una certa regione del genoma umano si associ in modo significativo con il rischio di ammalarsi di Covid-19, e in forma grave.
Per lo studio raccolti i dati di 10mila persone
“Quando abbiamo visto che in tutta quest’area vicino a Bergamo, Alzano, Nembro, c’era una frequenza di malattie gravi e di morti, con numeri che erano 850 volte superiori a quelli che ci si poteva aspettare perlomeno nei primi tempi – ha raccontato il direttore del Mario Negri – ci siamo chiesti: perché qualcuno si ammala in modo grave e qualcun altro in modo lieve? Abbiamo raccolto così 10mila persone di cui conosciamo tutti i dati personali, la storia familiare, e ci siamo convinti che potesse esserci qualcosa di genetico”.
L’impatto del gene dell’uomo di Neanderthal sul Covid
Con questa analisi, poi, “ci siamo concentrati su un gruppo di varianti genetiche, che si ereditano tutte insieme. In particolare un aplotipo, quello dei Neanderthal, sopravanzava tutti gli altri in termini di rischio della malattia, è in assoluto il più convincente”. “Non è che non si sapesse che il Covid grave si associa a questo aplotipo ereditato dai Neanderthal che sta sul cromosoma 3”, ha puntualizzato Remuzzi, ricordando come questo aspetto fosse stato “visto in un articolo pubblicato su Nature dal genetista Svante Paabo, premio Nobel per la medicina”, ritenuto un padre della paleogenetica “per la sua capacità di estrarre il Dna antico dalle ossa di fossili vissuti 40 mila anni fa”.
L’importanza dello studio dell’Istituto Mario Negri
Ma lo studio di Bergamo offre in più il fatto che “è stato condotto su pazienti selezionati, tutti uguali, 400 che si ammalano in modo grave, 400 in modo lieve e 400 non si ammalano. E abbiamo trovato che il 30% delle persone che si erano ammalate in modo grave aveva l’aplotipo di rischio, mentre nel gruppo di chi aveva avuto la malattia meno grave lo aveva solo il 20%, fra chi non aveva avuto niente il 15%. La differenza – ha sottolineato Remuzzi – è molto grande”. Lo studio “apre tante vie”, ha quindi aggiunto il medico, parlando della possibilità di conoscere in anticipo chi ha un rischio maggiore dall’incontro con Covid, in modo che possa “fare più attenzione a prendere gli antivirali e a vaccinarsi”. “E poi, oltre a questo – ha proseguito – noi abbiamo trovato anche altri geni che non ha visto nessuno: alcuni sono associati a una proteina che aumenta nel caso del Covid e questo aspetto potrebbe aprire una prospettiva terapeutica molto importante”. Lo studio inoltre ha dimostrato che 12 dei quasi 10mila pazienti coinvolti nella ricerca avevano avuto sintomi già a novembre-dicembre del 2019.
Fontana: “Risultati che aiutano a dare risposte più efficienti alla malattia”
Le domande a cui cerca di rispondere lo studio sono quelle che “i tecnici della sanità e gli addetti ai lavori si sono posti ogni giorno durante la pandemia”, ha commentato Bertolaso, mentre Fontana ha sottolineato l’importanza dello studio, raccontando che “quando Remuzzi mi parlò della possibilità che ci fossero delle ragioni anche di carattere genetico” per la gravità con cui il Covid si era abbattuto sul territorio orobico “e che fosse necessario fare un’indagine, gli dissi subito di sì”. “Credo siano risultati che possono aiutare ad affrontare e conoscere meglio la situazione e quindi dare risposte più efficienti a questa malattia”, ha aggiunto Fontana, ringraziando i ricercatori che “ci hanno anche spiegato perché in certe zone ci fosse una diffusione con delle conseguenze gravi e, in altre zone, magari, situazioni analoghe ma con conseguenze molto meno gravi”.