Quando Messina Denaro diceva: “Io mi sento un uomo d’onore, ma non sono mafioso”. E negava stragi e omicidi

25 Set 2023 10:08 - di Redazione
MATTEO MESSINA DENARO

Ha sempre negato di essere un mafioso, Matteo Messina Denaro. Ma un uomo d’onore, quello sì, non aveva problemi a dirlo: “Io mi sento uomo d’onore, ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali… magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra“.

Era il 13 febbraio scorso. E Matteo Messina Denaro, sette mesi prima di morire per il cancro al colon che se l’è portato via questa notte nell’ospedale San Salvatore dell’Aquila dov’era stato ricoverato, si trovava, per la prima volta, davanti ai magistrati di Palermo che lo interrogavano.

In poco meno di due ora il boss mafioso aveva parlato di mafia, di famiglia, persino del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Ad ascoltarlo il procuratore capo di Palermo, Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido: “Io non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia“, diceva Messina Denaro in quel primo interrogatorio rivendicando la sua capacità di restare latitante per 30 anni.

“Ora che ho la malattia non posso stare più fuori e debbo ritornare qua. Allora mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta”, spiegava Messina Denaro ai magistrati che lo ascoltavano. E diceva che a Campobello di Mazara, dove viveva, sotto falso nome “mi sono creato un’altra identità: Francesco”.
“Giocavo a poker, mangiavo al ristorante, andavo a giocare”. Come uno qualsiasi.

Ma, appunto, sulla questione delle stragi così come sugli omicidi, in particolare quello del piccolo Santino  Di Matteo, rapito a 12 anni e poi ucciso e sciolto nell’acido a 14 anni, Messina Denaro non cedeva, negando risolutamente di aver commesso quei reati: “stragi e omicidi… non c’entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare”, lasciava cadere con una sorta di fatalismo.

“Una cosa fatemela dire: forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo, ma con l’omicidio del bambino non c’entro“. Nel senso che non era lui, diceva, ad averlo ammazzato, ma rapito sì. E accollava l’omicidio, invece, a Giovanni Brusca: “io mi sento appioppare un omicidio, invece secondo me mi devono appioppare il sequestro di persona. Non lo faccio per una questione di 30 anni o ergastolo, per una questione di principio. E poi a tutti… cioè loro lo hanno ammazzato, lo hanno sciolto nell’acido e alla fine quello a pagare sono io? Ma ingiustizie quante ne devo subire?”.

I magistrati gli rinfacciano di aver offeso Giovanni Falcone con un audio inviato a una paziente della clinica di Palermo dove era anche lui in cura per il tumore.
Messina Denaro era rimasto bloccato nel traffico, il 23 maggio, il giorno delle commemorazioni per Falcone: “Io non è che volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa… – diceva. – Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora, se invece del giudice fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perché non si possono permettere di bloccare un’autostrada per decine di chilometri: così vi fate odiare”.

Quel giorno, il procuratore de Lucia gli chiedeva perché scriveva a Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro rispondeva: “Perché quando si fa un certo tipo di vita poi arrivato ad un dato momento ci dobbiamo incontrare perché io latitante accusato di mafia lui latitante accusato di mafia dove si va?”.
“Ma lei – insisteva il capo della Dda siciliana – se lo ricorda quello che scriveva a Bernardo Provenzano?”. “Si’, pressappoco sì, io chiedevo favori a lui se me li poteva fare e lui chiedeva favori a me se glieli potevo fare. Omicidi non ce n’erano, questo è sicuro”.
Quel giorno l’ex-primula rossa aveva anche spiegato ai pm che, per tanti anni, aveva deciso di vivere lontano dalla tecnologia perché consapevole che sarebbe stato un punto debole.

In quella circostanza parlava anche del padre, il boss mafioso Francesco Messina Denaro, che aveva definito “un mercante d’arte“. “Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte. Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire – raccontava il capomafia ai magistrati – poi mio padre era mercante d’arte e dove sto io c’è Selinunte (sito archeologico del trapanese, ndr). Mio padre non è che ci andava a scavare però a Selinunte a quell’epoca c’erano mille persone e scavavano tutte. In genere il 100% delle opere le comprava mio padre che poi venivano vendute in Svizzera e poi arrivavano dalla Svizzera dovunque: in Arabia, negli Emirati e noi vedevamo cose che passavano da mio padre nei musei americani“.

 

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