L’Islam e la difficoltà di integrare chi arriva mosso dalla furia del fondamentalismo
Ci sono oltre due miliardi di persone che credono nell’Islam. Uno su quattro. Meno dei cristiani e come loro (come noi) divisi in gruppi e segmenti teologici diversi. C’è stato un fatto nuovo, però, con Hamas e cioè l’alleanza tra sunniti e sciiti. I sunniti, presi da soli, sono la prima confessione del mondo, più dei cattolici. Ma c’è una differenza in questo rigurgito di guerra santa senza Dio che ci riguarda da vicino. I cristiani sono solo sulla carta 2,4 miliardi, perché pagano un lungo processo di secolarizzazione coinciso con il Novecento, mentre almeno l’80% dei musulmani è veramente credente. E crede, come ricordò inascoltato Benedetto XVI a Ratisbona, in un Dio assai diverso dal nostro. In un Dio che premia il martirio se giustificato dalla fede e non nel perdono senza rappresaglia, come splendidamente predicato nei Vangeli. Sono stati filosofi e pensatori atei come Massimo Cacciari e Norberto Bobbio a specificare questa differenza che Ratzinger sigillò in un discorso che avrebbe dovuto essere pietra miliare dell’azione della Chiesa ma che pare essere stato dimenticato da tutti.
Il fallimento dell’accoglienza europea
Il fulcro di questa nuova, terribile ondata islamica chiama in causa l’Occidente per le fessure che ha aperto in nome di un progressismo che non era certo pacificazione civile e sociale. A Ratisbona Ratzinger non disse che Cristo aveva primazia tra le religioni monoteiste ma che l’indispensabile laicità delle istituzioni dovesse convivere con un’identità smarrita, rimossa finanche nella bozza della Costituzione europea che poi aborti. I musulmani sono portatori di una straordinaria cultura, traducibile nella matematica ma anche nella filosofia. Ma il contesto del dopoguerra ne ha radicalizzato ulteriormente l’appartenenza. In questo sono simili al popolo ebraico: ognuno di loro rimane essenzialmente musulmano in qualsiasi posto vada. Montanelli ricordava che gli italiani emigrati perdevano la loro memoria già dopo una generazione. Diventavano americani o belgi, i musulmani no. In questa coincidenza ha fallito l’Europa laddove ha pensato ( soprattutto la Francia) di positivizzare l’accoglienza integrandola totalmente. È persino superfluo ribadire che una comunità così grande è quasi del tutto composta da gente estranea al terrorismo ma l’opzione fideistica persiste. Sempre. Le nostre chiese sono da decenni vuote. Le moschee sono piene. E là dove non esistono, qualsiasi spazio ( paradossalmente a pretesto di ciò che Gesù dice per il cristianesimo) è utile per rendere omaggio a Dio.
La mancanza di paura della morte dei musulmani
Ciò che ci vede perdenti nel confronto di una guerra che è unipolare in chiave religiosa è l’assenza e Dio dalle nostre latitudini. Dio inteso come espressione di utopia, non necessariamente religiosa. Nel pensiero di Heidegger, che Sartre usò strumentalmente per costruire l’idea dell’esistenzialismo, paradossalmente si anticipa profeticamente la scristianizzazione dell’Europa addebitandola proprio alla concezione sbagliata di un certo cristianesimo. Cento anni fa, non oggi.
Il mondo dopo Yalta ha garantito benessere all’Occidente ma in cambio di una completa resa valoriale. E la caduta del socialismo reale ha da un lato fatto illudere che la società ideale fosse quella del capitalismo puro, dall’altro ha innescato un meccanismo ambiguo di Europa nel quale dovesse essere imposta una nuova forma di parità orizzontale, non più caratterizzata dall’assenza del possesso ma da una evangelizzazione laica di chiunque provenisse da altri continenti. La Francia e l’Inghilterra più di tutte portano sulla propria pelle i segni di questa sconfitta. I musulmani conservano clamorosamente questa forte residualità teocratica vivendo, a loro modo, proprio il messaggio cristiano: “Essere nel mondo ma non del mondo”. Nessuna forzatura razionale può bypassare la mancanza di paura della morte, l’angoscia vitale secondo le teorie psicanalitiche, la condizione rispetto alla quale ognuno di noi cede al compromesso. Se un ragazzino di sedici anni è invece contento di farsi saltare in aria perché è l’anello di congiunzione verso l’infinito non vi è ragione deterrente per contrastarlo.
Mishima e l’identità che non deve essere sopraffazione
Nell’Ottocento, prima ancora del secolo delle guerre, delle tragedie, degli stermini, la letteratura russa ha tentato di fornire una chiave di lettura degli scenari possibili relativi all’identità . Ma abbiamo sottovalutato l’errore e la presunzione di far dilagare, nell’ambito della supremazia occidentale, l’idea che il mondo riguardasse appunto tutto quanto fosse generato dall’illuminismo liberale e da una matrice cristiana tollerata solo per la sua compatibile visione non violenta. I due mondi avrebbero potuto e dovuto dialogare senza pensare che l’idea del progresso potesse contaminare l’altro. Seppure vissuta in contesti ben diversi, la storia del Giappone e la narrazione del suo scrittore più grande, Mishima, sembra simile. Mishima reclamava un’identità non come sopraffazione o negazione dei diritti altrui ma come prevenzione di una omologazione che portasse a pensare che l’abbattimento delle idee significasse democrazia ideale. Non vi è dubbio che la democrazia liberale sia la migliore soluzione di convivenza. Ma essa è praticabile se non avvolta dal nichilismo dogmatico. La Chiesa protestante in alcune sue manifestazioni ne ha rivendicato la realizzazione. Non può sfuggire che questa decomposizione riguardi la responsabilità dell’Europa e della sua smarrita ricchezza culturale. E di un’Europa incapace di costruire un’identità parallela attraverso i suoi simboli. “Ci daranno la libertà di dire tutto senza che niente abbia significato” scrisse Deleuze, che certo non era un destroide. Oggi bisognerebbe iniziare a fare i conti con il nostro vuoto. Che è la porta più pericolosa dalla quale possono entrare guerre che sono principalmente esistenziali.