Pupi Avati, maestro di magia e disincanto si racconta: quella sera che mi rivelai democristiano e Moravia mi fulminò
Fellini, Pasolini, Berlusconi. La fascinazione per quel che di magico c’è nella vita, l’amore di sempre per la moglie Amelia e, soprattutto, una vita di cinema. Per il cinema. Con il cinema. L’intervista ritratto che Aldo Cazzullo dedica al maestro Pupi Avati, un mistico della regia con il dono di regalare agli attori in disarmo una seconda vita di celluloide, rivela pensieri, ricordi e convinzioni dell’uomo, e dell’uomo di cinema. E conferma una granitica certezza: l’intreccio indissolubile nella quotidianità del regista bolognese di normalità e mistero, in un presente su cui aleggia il retaggio del passaggio, il mistero della morte, e la presenza degli affetti che non ci sono più nel loro ricordo vivido e costante. Un’alchemica commistione di realtà ed eccezionalità che fa capolino a ogni passo del cineasta bolognese, dietro anche il più apparentemente insignificante gesto di tutti i giorni. Tra le righe di sceneggiature e scritti.
Pupi Avati, maestro di magia e disincanto, si racconta al “Corriere”
L’infanzia “magica” e l’irruzione dell’horror a causa della guerra. Il rapporto viscerale con il cinema e l’amore per il jazz. La scrittura e la narrazione per immagini. Scelte e eventi, quelle che Avati racconta guardando indietro come in un ideale backstage della sua vita, in qualche modo vissuti – e riletti oggi – sotto la lente di una percettibilissima irruzione dello straordinario nella normalità di momenti e situazioni. Come quando il regista racconta nell’intervista al Corriere dell’ossessione della madre per i versi di Pascoli de La cavallina storna. Un mantra che ritornerà con veemenza nel momento della tragica scomparsa del marito. «Mia madre era ossessionata da quella poesia di Pascoli – ricorda il regista -. Quando la ascoltava, piangeva. Noi gliela recitavamo per dispetto, e lei fuggiva tappandosi le orecchie. Mio padre morì in macchina a Santarcangelo di Romagna, nella stessa curva. Nello stesso giorno — 10 agosto —. Alla stessa ora in cui era stato assassinato il padre di Pascoli. Nell’incidente morì anche mia nonna materna. Ci stavano raggiungendo a Rimini per festeggiare il ferragosto».
Tra ricordi in bianco e nero e la magia del cinema
Ricordi in bianco e nero, ora drammatici, ora lievi e avvolgenti, quelli del maestro Avati. Ricordi impressi a carattere di fuoco nella sua memoria, che neppure il tempo è riuscito a confondere in una contaminazione di sfumature funzionali a confonderne la memoria ed edulcorare – o demonizzare – la realtà. Come quando della guerra ricorda «le notti nei rifugi a Bologna. Le sirene, la fuga. I rosari a raffica, il palazzo che trema tutto. Il biancore dell’aria piena di fumo, le urla delle donne che riconoscono i morti». O come quando, qualche passaggio dell’intervista più avanti, del dopoguerra dice: l’Italia di quegli anni? «Impresentabile e felice. A casa ho la foto di classe delle medie: siamo in 35, uno più brutto dell’altro. Sembriamo la famiglia Addams. Non si capisce neppure che stagione fosse: questo aveva cappotto e cappello, quello era in canottiera… Eppure non ce n’è uno che non sorrida. Anche perché per molti era la prima foto che facevano in vita loro. Ognuno coltivava il proprio sogno individuale, e attendeva cose straordinarie».
Pupi Avati, la storia, la fede e gli incontri di una vita
Perché, in tutto il racconto della sua vita, delle sue scelte e della convinzioni maturate sul campo e rivisitate sui set, Pupi Avati segue un filo della narrazione che riporta puntualmente. Inesorabilmente, a una sua verità capace di mescolare in un’alchimia di pensieri e ricordi, la realtà e l’irruzione del metafisico che la pervade a tratti.
Per questo, sollecitato dall’intervistatore a esprimersi su Papa Francesco, vicario di Cristo in Terra, Avati risponde: «Se credi in Dio, devi credere nell’onnipotenza di cui lo Spirito Santo ti ha perfuso. I sacerdoti non parlano più della vita e della morte, del peccato e dell’oltretomba. Un tempo erano loro ad accompagnarti di là, ed erano i depositari dei segreti inconfessabili del morente. Quasi tutti avrebbero ancora bisogno di preti così: il proselitismo laico se lo possono permettere solo i ricchi».
L’irruzione dell’eccezionalità sul set e nei momenti di vita vissuta
Nel suo cinema, invece, il miracolo dell’eccezionalità si compie anche solo nella sua evocazione. Così, dalle colonne del Corriere, Avati sottolinea: «Non solo la guerra; la favola contadina, il fascino della religione preconciliare. Nei miei horror, e anche nel romanzo, c’è sempre un prete. Rigorosamente in tonaca nera. Oggi i preti sembrano assistenti sociali». Figure che, come il sacro e la spiritualità che il regista evoca e racconta nei suoi film, si alternano in sottofondo. Mentre in primo piano operano i protagonisti della politica e della scena culturale. E allora: Pasolini, Dalla, Berlusconi e Giorgia Meloni: il regista bolognese racconta a Cazzullo i suoi incontri e il suo rapporto con la politica. «Votavo Dc – dice Avati al Corriere -. Poi mi sono innamorato di Berlusconi. Era come Fellini: quando stavi con lui, ti faceva sentire la persona più importante del mondo. Fin quando è stato Berlusconi, mi è sempre piaciuto moltissimo».
Pupi Avati: quella volta che dissi di essere democrastiano e…
La domanda successiva, allora, sorge spontanea: «Da quando non era più Berlusconi?». «Da un po’ di anni. Mi torna in mente una serata sulla terrazza di Laura Betti. Erano tutti comunisti. Quando dissi che ero democristiano, incrociai lo sguardo di Moravia, carico di disprezzo. Capii che non mi avrebbero mai più invitato». Ma Avati nega boicottaggi o congiure di sinistra contro di lui o contro il suo cinema. « Ho fatto tutti i film che volevo: il cassetto è vuoto. Sono riuscito pure a fare il film su Dante, e ora a portarlo in Giappone». Ma, aggiunge anche in calce, «certo non sono considerato dalle persone che piacciono. L’amichetteria, come la chiama Fulvio Abbate»… Mentre, dal fronte contrapposto, al premier Meloni Pupi Avati riconosce: «L’ho votata perché so che non vuole essere ricordata solo come la prima donna premier, ma a qualunque costo vorrà riuscire nell’impresa fallita da tanti predecessori».