Su lavoro e partecipazione l’asse tra Cisl e FdI può isolare la Cgil e togliere armi al Pd
La gestione della politica del lavoro, argomento abbastanza seducente, passa attraverso divisioni storiche e visioni politiche non sempre convergenti. Nel lungo periodo della cosiddetta prima Repubblica bastava minacciare uno sciopero generale per far cadere un governo, mentre oggi la profonda crisi identitaria non risparmia nemmeno le organizzazioni sindacali.
Fratelli d’Italia ha una linea politica abbastanza chiara, che punta nell’immediato alla decontribuzione per le fasce medio-basse e in prospettiva a una ridefinizione, anche europea, della questione dei salari che va contestualizzata alla realtà industriale. Il limite maggiore della CGIL e del PD è un’impostazione che sembra richiamare a una società che non esiste più: quella della massificazione industriale, dell’intervento dello Stato in chiave esclusivamente mediana (e di fatto tendente a favorire solo gli interessi della grande industria) e a ritenere che il salario minimo riduca le distanze tra i ceti accumulate negli ultimi vent’anni .
In realtà la Cgil dovrebbe comprendere che l’emergenza occidentale in materia economica è determinata proprio dalle divaricazioni reddituali, che rendono più ricche minoranze e più povero il ceto medio e che la sfida è quella di realizzare nel tempo una comunità in cui (per citare proprio il post marxismo) la frattura tra capitale e lavoro si ricomponga.
In questo quadro l’iniziativa della CISL e di Luigi Sbarra sull’attuazione dell’articolo 46 della Costituzione è un fatto di rilievo. Innescare nella partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e degli utili meccanismi di novità è anche un tentativo di superare la contrapposizione storica tra profitto e massimizzazione o collettivizzazione. C’è una crisi profonda di consenso per la sinistra proprio nelle fabbriche e una incapacità di leggere una contemporaneità che assottiglia ulteriormente il valore del capitale umano.
Di fatto, la corporazione sindacale Intesa come mera difesa di una parte è insufficiente. Non regola i rapporti sociali, non induce a migliorare la qualità della vita, non assegna al lavoro la pienezza del suo valore che si esplica nella retribuzione ma anche nella dignità dei ruoli.
Meloni, che ha un’impostazione politica e culturale sociale, tenta di far capire che al di là delle contingenze, la questione lavoro è globale e culturale, mentre il PD difende una riserva peraltro sempre più debole quantitativamente trincerandosi dietro il totem di rivendicazioni che meritano sempre rispetto ma che sono inevitabilmente inconcludenti. Ciò che manca alla sinistra è proprio quello che prevedeva Proudhon: interpretare le mutazioni. Se si pensa alle libere professioni, la differenza rispetto a quarant’anni fa è enorme: la gran parte degli avvocati, per fare un esempio, ha difficoltà di sopravvivenza ma viene indicata come borghesia agiata.
E questo accade per tutte le altre categorie. Eppure, l’idea che l’ossatura del Paese sia prevalentemente industrializzata tarda ad essere accantonata, seppure abbiamo fortemente bisogno di una nuova stagione di industrializzazione.
Fratelli d’Italia ha emanazioni periferiche che lavorano proprio in questa ottica. In Calabria, ad esempio, grazie anche all’assessore al ramo di FdI, ci si è occupati non solo del bacino del precariato ma anche di finanziare l’intrapresa, le start up femminili, la cooperazione come possibilità di favorire l’iniziativa privata.
Paradossalmente, ma non tanto, le élites sostengono il progressismo mentre le vecchie masse, oggi fenomeno sociologico cambiato, scelgono sempre di più le destre. Alcuni dati sulle macro imprese ci dicono che il concetto smithiano di domanda e offerta è stato sfruttato abilmente, sia in Europa che negli Stati Uniti: meno produzione, meno occupati, più profitti. Un sistema che ha prodotto extra profitto e quando, come è accaduto in Italia, il governo ha introdotto un prelievo straordinario per finanziare di fatto l’aumento degli stipendi, la sinistra ha ben pensato di difendere le oligarchie. Sbarra ha rotto gli argini dell’immobilismo sindacale proponendo una soluzione metapolitica a cui certamente la Destra italiana guarderà con interesse, mentre Landini ha scelto un movimentismo che si fatto è solo conservativo. Le opzioni migliori del Novecento sul lavoro e la sua umanizzazione, sulla diffusione orizzontale del benessere sociale, sono venute dalla sinistra riformista e non massimalista. Nel quadro della modernizzazione, e nella morte del riformismo socialista, sono i Conservatori europei a poterne rivendicare l’eredità , quando contestano l’Europa e la sua gelida apatia o gli ostacoli che frappone alle singoli nazioni nel nome di un furore ideologico ambientalista improponibile e poco ecologico.
Pensare oggi a uno Stato che pompi debito per interventi sociali è inattuabile finanche negli Stati Uniti o in quei Paesi a basso debito. Rivedere il concetto di lavoro è un obiettivo per chi attribuisce ad esso la dimensione di autentica creazione della ricchezza. Una ricchezza che va riconsegnata in maniera più equa. Se ci si ferma alla rivendicazione del salario minimo si dimostra l’impossibilità di voler comprendere una dimensione molto più ampia. Che ritorna alla base della soggettivizzazione del lavoratore e non della oggettualizzazione. E anche su questo la Destra può essere molto più credibile di chi si erge a tutela di dogmi che oggi sono antistorici.