L’intervista. La costituzionalista Nicotra: “Il premierato è apprezzabile. Può superare anche il referendum”

3 Nov 2023 13:45 - di Annamaria Gravino
premierato

“Lo spirito della riforma è senz’altro positivo, perché mira a realizzare la stabilità di governo e mettere in sintonia la volontà del corpo elettorale con le istituzioni rappresentative, il Parlamento e il governo. Questo aspetto merita apprezzamento”. A sottolinearlo è la professoressa Ida Angela Nicotra, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Catania, per la quale, pur premettendo che si ragiona ancora su una bozza, anche il modo in cui la riforma è stata concepita è da promuovere.

Professoressa, quale indirizzo legge nell’impianto della riforma?

Quello di mantenersi all’interno della forma di governo parlamentare italiana, rafforzando la posizione, il ruolo e le funzioni del presidente del Consiglio dei ministri. Lo si fa attraverso il principio chiave della riforma, che è l’elezione diretta e a suffragio universale del presidente del Consiglio. Questa formula tende a dare maggiore legittimazione al premier e si collega alla disciplina scelta – a mio avviso positiva perché conferisce flessibilità al sistema – della norma che comunemente è chiamata antiribaltone. Tale meccanismo consente, in caso di crisi di governo, di provare a formare un nuovo esecutivo, conferendo al presidente della Repubblica il potere di reincaricare il presidente del Consiglio dimissionario e, qualora questo tentativo non riuscisse, di affidare l’incarico ad altro esponente della maggioranza che si impegna ad attuare il programma politico su cui il governo ha ottenuto la fiducia.

Lei si è soffermata sia sul fatto che la riforma si inserisce nel recinto del parlamentarismo sia sul ruolo del presidente della Repubblica. Eppure chi si oppone alla riforma indica come maggiori criticità proprio lo svuotamento del ruolo di Parlamento e Quirinale…

Io, a dire in vero, non riscontro queste criticità. La versione più netta sarebbe stata quella del simul simul, già presente in Costituzione, all’articolo 126, con riferimento alla forma di governo regionale. La sfiducia al presidente della Regione eletto direttamente si combina con l’automatica fine della legislatura, quindi con lo scioglimento del Consiglio in caso di mozione di sfiducia. La formula del simul stabunt – simul cadent – una delle opzioni possibili da trasferire a livello nazionale – è apparsa eccessivamente rigida. Invece è stato individuato un sistema che non porta allo scioglimento immediato e mira proprio a tenere centrale il ruolo del Presidente della Repubblica e del Parlamento, con la possibilità di individuare un altro soggetto che potrà svolgere il ruolo di presidente del Consiglio dei ministri. Le critiche mi sembrano pertanto ingenerose.

A suo avviso, si poteva ipotizzare un sistema migliore?

Non esiste un modellino costituzionale della forma di governo buono per tutte le stagioni. Sento da più parti critiche sul fatto che il sistema individuato è ibrido perché unisce elementi di presidenzialismo con aspetti della forma parlamentare, ma anche sistemi come quello francese o come quello delle nostre Regioni nascono da innesti sulla forma parlamentare.

Il semipresidenzialismo alla francese è stato spesso indicato come riferimento.

Il semipresidenzialismo alla francese nasce sull’impianto della Quarta Repubblica di forma di governo parlamentare pura. Nel 1958 De Gaulle suggerisce il cambiamento della forma di governo e inserisce all’interno del sistema parlamentare l’elezione diretta del capo dello Stato, che indica il primo ministro collegato alle Camere dal rapporto fiduciario. Anche in quel caso convivono presidenzialismo e parlamentarismo, che hanno dato vita a una rielaborazione del sistema parlamentare che esisteva prima del ’58. La stessa cosa è successa con la nostra forma di governo regionale: si è pensato di innestare l’elezione diretta del presidente su un modello che prima era puramente parlamentare. La forma di governo non si può decontestualizzare, va calata nella realtà istituzionale, sociale e politica di un Paese, assecondandone le peculiarità.

Da noi si parla di una riforma da decenni, eppure siamo ancora qui a discuterne. L’esigenza dell’adeguamento, di una modernizzazione non era poi così pressante?

Io ritengo che l’ostacolo alla modernizzazione della forma di governo fino a oggi sia stato il cosiddetto “complesso del tiranno”, ma ormai nel nostro ordinamento liberal democratico tale timore appare davvero anacronistico.

I tentativi di riforma di Berlusconi nel 2006 e di Renzi nel 2016 si sono arenati sui referendum. Gli italiani vivono quel complesso?

No, in quei casi credo che il corpo elettorale le abbia bocciate perché erano riforme eterogenee, che interessavano numerose parti della Costituzione. Toccavano aspetti come il bicameralismo, il Titolo V, il Senato delle Regioni. Tale complessità ha incisivo negativamente, perché il cittadino non si è sentito realmente libero di scegliere attraverso un semplice sì o no. Qui invece parliamo di una riforma puntale e mirata ad aggiornare la forma di governo e questa potrebbe essere la ragione per una valutazione favorevole della riforma attraverso il referendum. È quello che è accaduto con il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari: i cittadini hanno votato a favore dello snellimento delle Camere.

Dunque, da parte degli italiani non vi sarebbe una resistenza al cambiamento, ma una richiesta di chiarezza.

Esatto. Anche la scelta diretta del presidente del Consiglio dei ministri potrebbe avere una risposta positiva. Del resto, i cittadini già votano direttamente il sindaco e il presidente della Regione e queste formule hanno offerto una risposta adeguata. Il presidente del Consiglio dei ministri è l’ultimo tassello. La riforma prevede i giusti contrappesi, il bilanciamento tra i poteri del premier, quelli del Parlamento e del presidente della Repubblica. La nuova forma di governo può condurre all’affermazione del bipolarismo e della democrazia dell’alternanza.

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