Premierato, Giuffrè: “Potrebbe essere la volta buona, gli italiani già votano così sindaci e governatori”
Un’occasione storica per avvicinare i cittadini alle istituzioni, dare razionalità e omogeneità al sistema politico. Felice Giuffrè, catanese doc, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico e componente laico del Csm, guarda con favore alla riforma costituzionale targata Meloni, stella polare del nuovo esecutivo. L’elezione diretta del presidente del Consiglio, che ha scatenato la crociata di chi agita lo spauracchio della deriva cesarista, punta a due obiettivi: la stabilità di governo e la sintonia tra la volontà del corpo elettorale e i rappresentanti istituzionali.
Potrebbe essere la volta buona, dopo i tentativi falliti di Berlusconi nel 2006 e di Renzi nel 2016?
“Credo proprio di sì. Certamente ci sarà un grande dibattito in Parlamento. La differenza dal passato è che questa volta il quesito è chiaro: si chiede agli italiani di esprimersi con un sì o con un no all’elezione popolare del presidente del Consiglio. Da decenni viviamo il problema della distanza tra istituzioni e cittadini, a partire dalla crisi dei partiti degli anno ’90. Aggiungo che gli elettori hanno già sperimentato l’elezione diretta del sindaco dal ’93 e dei presidenti di Regione dal ’99. Ora si apre la possibilità di scegliere il presidente del Consiglio e la maggioranza parlamentare. In democrazia la parola spetta agli elettori.
La riforma, per come è stata concepita, è davvero utile ad aggirare il pericolo di maggioranze balneari e di governi lampo?
In caso di crisi di governo si torna al voto. Le opposizioni hanno la possibilità di mettere in crisi il premier direttamente eletto, sostituendolo con un premier della stessa maggioranza. Ma è un’ipotesi residuale, perché il nuovo presidente del Consiglio dovrebbe aver il consenso del primo partito di maggioranza eletto alle urne. Diciamo che è uno scenario giuridicamente possibile, ma politicamente residuale. A questo dobbiamo aggiungere il vincolo del programma elettorale.
Hanno fondamento le critiche che parlano di rischi di un depotenziamento del capo dello Stato?
Direi proprio di no. Il ruolo del capo dello Stato, secondo il dettato costituzionale, è un potere neutro e di garanzia. Che si “espande” solo se non si ha una maggioranza chiara. Se il Parlamento esprime una maggioranza chiara, il presidente della Repubblica è vincolato. Così come è avvenuto con Prodi, Berlusconi e Giorgia Meloni. Il capo dello Stato, inoltre, non ha da solo il poter di sciogliere le Camere, deve condividerlo con il premier in carica, ha bisogno della controfirma del capo del governo. L’obiezione di un ridimensionamento del presidente della Repubblica non ha fondamento.
E l’eventuale commissariamento del Parlamento? C’è chi adombra un terremoto istituzionale
Il Parlamento non è mai stato così esautorato come oggi. È un effetto della debolezza dei partiti che parte dagli anni ’90, da allora il Parlamento ha preso centralità. Non è certo l’elezione diretta del presidente del Consiglio a delegittimare le Camere.
Nessun rischio per derive plebiscitarie o cesariste, come sostengono i detrattori della riforma?
La deriva cesarista, semmai, è un’obiezione che si può muovere per altre forme di g0verno, come il presidenzialismo americano o il semi-presidenzialismo alla francese. Una forma di governo parlamentare, presidenziale, con il premier eletto direttamente dal corpo elettorale, deve comunque avere la fiducia del Parlamento. Non spetta a me dare giudizi politici: ma è indubbio che siamo di fronte a una parte del potere politico che vuole un esecutivo eletto direttamente e un’altra parte che ritiene che bisogna comporre la maggioranza in Parlamento.
Come giudica l’ipotesi referendaria? Gli italiani hanno un rapporto complesso con i referendum
È vero che alcuni referendum sono andati mali, hanno fallito perché coinvolgevano diversi profili costituzionali. Ma altri hanno avuto effetto, come nel caso della riduzione del numero dei parlamentari. Nel caso della riforma costituzionale immaginata dal governo Meloni si tratterebbe di rispondere a un quesito semplice e chiaro. E poi, ripeto, si tratta di un sistema che gli elettori già conoscono. Uniformare il sistema di voto sull’esempio delle forme di governo territoriali contribuirebbe a razionalizzare il sistema politico, rendendolo più omogeneo e stabile.