Saman, l’ultimo sfregio. Il padre in delirio piange in aula e accusa: “Intelligente ma bugiarda. Era felice delle nozze”
La sentenza del processo per l’omicidio di Saman Abbas – la diciottenne pakistana uccisa nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021 a Novellara, dopo aver rifiutato un matrimonio combinato, e che proprio ieri avrebbe compiuto 21 anni – è attesa nel pomeriggio. Intanto però, questa mattina, nell’aula della Corte di assise di Reggio Emilia, il padre della ragazza, Shabbar, compie l’ultimo scempio. E parlando in italiano – perché il suo delirio difensivo che mescola affermazioni ardite e inaccettabili smentite choc arrivi forte e chiaro – infligge l’ennesimo sfregio alla figlia. Alla sua memoria. E alla verità sulla morte atroce che le è stata inferta a tradimento…
Processo Saman, il padre Shabbar punta l’indice contro tutti: a partire dalla figlia
Piange in aula Shabbar. E tra lacrime di coccodrillo e invettive infuocate, dichiara: «Non l’ho uccisa io, non sono un animale. Lei era intelligente, ma bugiarda». Poi la bugia più grande, rilanciata a titolo di una sua discolpa nell’agghiacciante vicenda familiare di un omicidio efferato deciso a tavolino in famiglia: «Saman era felice di sposare mio cugino». E nell’udienza che si è aperta con le repliche delle difese – e che in serata sancirà la sentenza di primo grado – si lancia in una raffica di dichiarazioni che, tra bugie e autocommiserazione, avrebbero persino la pretesa di riabilitare la sua immagine screditata e, al tempo stesso, stabilire una verità processuale fuori da ogni logica giuridica, lontana da ogni qualsivoglia interpretazione investigativa.
Saman? «Intelligente ma bugiarda. Non è vero che il matrimonio era combinato: lei era contenta»
«Volevo dire tutta la verità, sono state dette tante parole false. Non è vero che sono una persona ricca. Che sono legato alla mafia. O che ho ammazzato qui o in Pakistan. Né che sono andato a casa di Saqib a minacciarlo». Inizia così la lunga dichiarazione spontanea resa da Shabbar Abbas nell’aula della Corte di Assise di Reggio Emilia. Il padre di Saman parla ed è un fiume in piena: prodigo di parole e lacrime che straripano da un racconto che gronda un’autocommiserazione funzionale soprattutto a tentare disperatamente di sottrarsi alla mannaia della giustizia e alla gogna di un verdetto particolarmente atteso.
«Non voglio dire bugie, ne ho sentite troppe qui»: l’esordio choc del padre di Saman a processo
Così, nel giorno della prima sentenza del processo per l’omicidio di sua figlia, il padre Shabbar incalza inquirenti, avvocati e toghe: «È falso quello che dicono – ribadisce l’uomo –. Che ho ammazzato mia figlia e sono scappato via. Che il 29 aprile ho scavato la buca, che ho portato lo zaino a casa, dopo averla lasciata in campagna. Io sono venuto con la mia famiglia in Italia a luglio 2016, i bambini dopo 1 o 2 mesi hanno cominciato ad andare a scuola. Saman ci andava col fratello, li portavo io. Qualche volta andavano soli. Lei però non voleva prendere il treno e mi ha chiesto di comprarle una macchina, ma senza patente le ho risposto che non poteva. Così lei ha detto che non voleva andare a scuola. A casa avevamo un computer che lei usava. Parlava su Skype, e diceva che studiava».
Il padre di Saman: «In vita mia non ho mai picchiato nessuno»
Parole che si affastellano per costruire un castello accusatorio che discolpa se stesso e punta l’indice contro la vittima, oltraggiata dalla violenza, prima. E dalla menzogna, poi. Eppure, «non voglio dire bugie, ne ho sentite troppe qui», si affretta a giustificarsi Shabbar. Aggiungendo persino a stretto a giro: «In vita mia non ho mai picchiato nessuno. Nel 2019 siamo andati in Pakistan e alcuni giorni dopo mio cugino mi ha detto che voleva portare a casa sua Saman. Gli ho risposto che era ancora una bambina, che volevo pensarci, che mi serviva tempo. Quindici, venti giorni dopo, mia figlia e mia moglie mi hanno detto che andava bene. E poi lui ha 4 anni in più, non come hanno detto. Io non avrei mai voluto un vecchio accanto a mia figlia. In Pakistan mio cugino e la sua famiglia stanno bene. Hanno casa e terra. Tutto il necessario per vivere. E poi era il mio stesso sangue. Erano tutti contenti», si affanna a ribadire Shabbar Abbas, padre di Saman, nell’aula della Corte di Assise di Reggio Emilia al termine delle repliche delle difese.
Processo Saman, entro stasera la sentenza di primo grado
E ancora. «I genitori non pensano mai male per i figli, come non l’ho fatto io – ribadisce Shabbar in pieno delirio auto-difensivo –. Volevo bene a loro. Ho sempre lavorato in campagna. Non ho mai rubato. Sono una persona povera, ho iniziato casa nel 2015 e ancora non è finita. Una persona ricca l’avrebbe fatta subito. E un mafioso non viene in Italia a lavorare. Ho sempre lavorato per la mia famiglia, per i miei figli, per mia moglie. Mai nemmeno un centesimo gli ho negato: davo tutto a loro. Non è vero del matrimonio combinato, Saman era contenta. Se mi avesse detto una volta che non voleva sposare quel ragazzo, avrei annullato tutto». oggi, però, non si torna indietro. Dopo le dichiarazioni spontanee i giudici, presidente Cristina Beretti, entreranno in camera di consiglio con sul tavolo la richiesta della Procura reggiana che ha formulato la richiesta di condanne all’ergastolo per i genitori, e di 30 anni per gli altri: cugini e zii, artefici e complici di un delitto imperdonabile. Inaccettabile.