Lo spirito ribelle di Leonardo Sciascia che ancora oggi affascina la destra anticonformista e libera
Riscoprire la grandezza di Leonardo Sciascia sarebbe un obiettivo auspicabile anche per il mondo della destra, da cui sembrava antitetico, con la sua rudezza da siciliano disincantato e quell’aria perenne e controcorrente che ne faceva una sorta di alter Montanelli.
Come Montanelli, Sciascia era incredibilmente libero intellettualmente e così disorganico alle confessioni dogmatiche da risultare a tratti isolato. Ed era figlio, come Pirandello da cui trasse molti spunti, di quella grande madre Sicilia, terra di enorme cultura e di naturali tragedie, com’essa spesso legato al confine eterno fra eros e thanathos. Figlio del pensiero socialista, grande letterato, Sciascia ha diviso con Pasolini l’ingombro e l’onore di una primazia indiscutibile sul piano intellettuale, non facendosi corrompere da niente se non dalle immancabili e letali sigarette.
Lui che aveva conosciuto il generale Dalla Chiesa da giovane, al punto da non smentire mai l’identificazione con il capitano de, “Il giorno della civetta “ e che aveva denunciato l’invasione edilizia e mafiosa su Palermo, non si tirò fuori dal coraggio di una polemica durissima e impopolare con il figlio Nando.
Sciascia antifascista che il 1979 elogia la relazione di minoranza di un geniale, ma sconosciuto ai più, deputato del MSI, Beppe Niccolai, in commissione antimafia (separata da quella di Pio La Torre) intravede negli anni ottanta l’avvento di un nuovo suffisso: l’antimafia come professionismo.
In quel gennaio del 1987, in mezzo a un pentapartito che da 40 anni faceva finta di non sapere nemmeno quanti voti prendesse nella Sicilia dei Ciancimino e dei cavalieri del lavoro e un PCI che invocava una stagione di giacobinismo indiscriminato, ebbe il coraggio di dire che “la mafia non si combatte con le sirene ma con il diritto”. Era la stagione in cui il PCI presidiava la sociologia universitaria con un nuovo mantra, organizzato da Pino Arlacchi, che attraversava le correnti della magistratura e voleva porre equazioni generalizzate sul sistema mafioso e le sue correlazioni politiche.
Sciascia era essenzialmente un aristocratico del pensiero, quasi celiniano nella misantropia mai sprezzante ma disillusa.
Prima di Pasolini aveva denunciato l’antifascismo senza fascismo come forma di egemonia culturale da respingere. La sua sicilianità era una sorta di secessionismo mentale, fuori dalle luci di un contesto che aveva idolatrato lo scontro non come catarsi sociale ma come affermazione di un dogma. Per questo aveva sposato le idee radicali, entrando anche in Parlamento nel 1979.
Ma la sua complessità letteraria è poco valorizzata. Un anarchico socialista senza vincoli, che esprimeva una lirica strepitosa, sin da L’Ora di Palermo.
Il maestro elementare di Racalmuto, divenuto un gigante della letteratura e del giornalismo, volle accanto a sé un crocefisso d’argento nella bara dove fu sepolto, quando morì, proprio nei giorni in cui cadeva il muro di Berlino. “Sono un non credente cristiano nei sentimenti”, disse di sé. E lasciò troppo presto il palcoscenico. Lasciando più sola un’Italia a cui mancava la sua decadenza.