Ma quale Cortellesi… per capire la fiaba e i suoi misteri leggete piuttosto Cristina Campo

12 Gen 2024 13:25 - di Annalisa Terranova

Paola Cortellesi in versione fan club di Michela Murgia che ci spiega il sessismo nelle favole è stato uno spettacolo poco esaltante. Soprattutto per la Luiss. Non si tratta di ostentare una sorta di conservatorismo fiabesco ma di salvaguardare un oggetto di studio, la fiaba appunto, che ha impegnato intellettuali e scrittori ben più solidi della regista e comica Cortellesi.

A loro dunque si farà qui riferimento non per confutare ciò che Cortellesi ha affermato (e che resta al livello di battute cabarettistiche) ma per far comprendere in che mondo ci si addentra quando parliamo di fiaba. Un mondo dove le cosiddette diseguaglianze di genere non hanno senso, così come non hanno diritto di cittadinanza le recriminazioni pseudofemministe. La fiaba, ci spiegava Attilio Mordini, scrittore e teologo, è per un bambino il primo rito, un rito serio e grande che lo prepara al linguaggio sacro dei Vangeli.

Un altra studiosa della fiaba e della sua struttura mitica fu Cristina Campo, la quale coglie in pieno la dimensione sacrale della fiaba. Ci dice infatti che per il bambino il racconto della fiaba, che spesso avviene da parte di un vecchio, da parte dei nonni, è una prima “iniziazione”. L’ascolto del bambino è libero, è ben disposto, è l’ideale terreno in cui la fiaba può dare frutto perché il bambino non è ancora del tutto intrappolato nella rete del razionale. Il linguaggio simbolico della fiaba gli arriva in modo netto e chiaro, non filtrato dalla pesantezza della materialità.  All’eroe della fiaba, ci dice la Campo, si pone dinanzi la “prova” come il Santo deve superare la “notte oscura dell’anima”.  “L’impossibile è aperto all’eroe di fiaba, ma all’impossibile come arrivare se non attraverso l’impossibile?”. Che la prova sia attraversare un bosco pauroso, salire un monte, uccidere un drago il fine ultimo è sempre la trasformazione dell’afflizione iniziale in felicità che per Campo è immersione nella bellezza, pura spiritualità.

In questa fase della “prova”, nella fiaba, entrano in campo quelli che Propp chiama gli aiutanti. Ma la “struttura” della fiaba che interessava a Propp interessa a Cristina Campo solo nella misura in cui questo aiuto soprannaturale che soccorre l’eroe è utile alla sua elevazione. Come il Santo, come l’uomo di fede, il protagonista della fiaba deve avere l’anima “spicca come le pesche”, cioè deve avere il cuore ben separato dalla carne. “Non si entra nell’impossibile con un cuore legato”, ammonisce la scrittrice. E’ un’immagine potente e al tempo stesso semplice.

Che cos’è questo impossibile di cui parla Campo? E’ la dimensione propria della fiaba dove si infrange la legge di necessità, dove si passa “a un nuovo ordine di rapporti”. Potremmo dire che è la dimensione in cui non valgono più le basi razionali della logica. Dove A non è uguale ad A e non è diverso da B. Dove cioè l’impossibile diventa alla portata. Il mondo della fiaba è oltre le apparenze. Hugo von Hoffmanstahl sosteneva che “ogni oggetto che possediamo non è altro che una carta di credito, un surrogato di uno più bello: ogni perla, ogni pezzo di stoffa, ogni frammento antico, ogni casa, è soltanto un balcone da cui i nostri desideri si affacciano sull’infinito, il foro di una serratura attraverso cui noi guardiamo nel regno incantato delle perle, delle sete, dell’antichità”. Cioè noi abbiamo bisogno di uno sguardo che ci fa cogliere la trama simbolica del reale e a questo ci porta appunto la fiaba.

Anche Simone Weil accostava la fiaba alla parabola.  Attilio Mordini fa l’esempio dell’opposizione luce-tenebre nella fiaba di Cappuccetto Rosso a tutti noi nota. Cappuccetto Rosso è la luce, il lupo la tenebra. Che prende il momentaneo sopravvento sull’essere (notte oscura dei mistici) anche se la fiaba-parabola si chiude con la redenzione finale. Il cacciatore che consente una resurrezione di Cappuccetto e della nonna. E’ “l’improvviso capovolgimento gioioso” di cui parla Tolkien. Una grazia che consente una fugace visione della Gioia “al di là delle mura del mondo”. Anche per Tolkien la fiaba è vangelo, è buona novella. Così ne spiegava il senso intimo: essa fa pulizia della finestra attraverso cui guardiamo le cose. Il vetro senza polvere ci rimanda a una realtà più vivida e, allo stesso tempo, più luminosa.

Certo la fiaba può essere materia anche per esercitazioni macchiettistiche e ciò darà sempre l’impressione di una inutile profanazione accompagnata da arrogante ignoranza. Non se ne sentiva il bisogno.

 

 

 

 

 

 

 

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