Quale drammaturgia per il XXI secolo? Da Sofocle ai giorni nostri, cosa ci insegna la storia del teatro
Quale drammaturgia per il XXI secolo? Se la domanda fosse posta semplicemente in questi termini, la risposta sarebbe fin troppo sbrigativa: la stessa di sempre, dal V° secolo a.C. a oggi. Ciò in mancanza di materiali antecedenti a tale epoca e relativi anche ad altre culture. Che ne sappiamo infatti della drammaturgia degli antichi egizi o dei sumeri? Perché non c’è alcun dubbio che deve essere esistita. Probabilmente, nel caso degli egizi, legata al culto dell’oltretomba, la dimensione per loro più importante, non solo per ragioni culturali, ma anche demografiche…, dato che si moriva giovanissimi e l’unico modo di allungare lo sguardo oltre i pochi anni di vita media, una ventina, spettanti a ciascuno, faraone che fosse o costruttore di tombe, era quello di considerare l’aldilà una prosecuzione dell’aldiquà, anzi la reale dimensione esistenziale.
Questa semplificazione presuppone però che al termine drammaturgia venga attribuito un significato univoco: l’arte di scrivere drammi. Ma sappiamo che, almeno dalla Hamburgische Dramaturgie di Lessing, non è così. E allora le cose si complicano. Fino a un certo punto, peraltro. Perché, per quanto si voglia dilatare l’ambito dei possibili significati del termine, resta incontrovertibile il fatto che essi ruotino comunque intorno al nucleo centrale che è sempre un testo, che può essere scritto, mimato, coreografato, musicato, nel quale viene “messo in scena” uno spaccato di vita, più o meno denso, complesso, articolato, con cui l’autore esprime la propria visione dell’esistenza, anzi crea uno strumento per comprendere la propria e l’altrui esistenza. Questo è il teatro. Lo è dall’Edipo Re all’Amleto, da Spettri a Girotondo, fino a Giorni felici o Finale di partita. Ancora, che io sappia, nessun drammaturgo ha osato ripetere l’operazione 4’ 33’’ di John Cage, vale a dire tenere gli spettatori per una durata più o meno lunga in silenzio e al buio, per poi abbassare il sipario. Bonnefoy, nel suo L’esitazione di Amleto, sostiene che il dramma scespiriano andrebbe visto, o meglio ascoltato al buio, ma non si spinge oltre. Non so se si sia reso conto che, così dicendo, ha tessuto l’elogio del radiodramma…, dove, appunto, i testi teatrali vengono semplicemente ascoltati (al buio o meno, è una scelta del fruitore), cosa che, a parere di molti, ne accresce l’intensità. Peraltro, anche nel caso estremo in cui si arrivasse al “non ascolto” di un testo (l’equivalente cioè della citata operazione di Cage), sarebbe comunque non soltanto l’espressione di un “mondo di visione”, ma anche la creazione di uno strumento di analisi della realtà, interiore ed esterna al soggetto. Così come lo è, in altro ambito, un Taglio di Fontana o il Quadrato bianco su fondo bianco di Malevic.
Ma, allora, perché periodicamente ci si pone il problema di dove vada il teatro, di quale sia il suo specifico linguaggio, se sia più o meno in crisi? No, per fortuna da qualche tempo abbiamo smesso di parlare di crisi del teatro, tanto più che i dati statistici dicono che tutti gli spazi, canonici o meno, sono permanentemente attivi e che gli spettatori sono in costante aumento. Ma anche quando ci si poneva la questione (ricordo di essere stato invitato nel 2004 a scrivere un contributo per Il libro dell’anno Treccani, proprio su tale tema), il retropensiero era che tutto sommato si trattasse di un momento di rigenerazione, di “crisi” nell’accezione comtiana di rinnovamento. Credo, in tutta franchezza, che, per un verso, sia uno stimolo alla riflessione, non sull’essenza della drammaturgia, ma sui suoi sviluppi possibili, sulle eventuali, feconde, contaminazioni con altre forme di espressione, dall’altro sia puro esercizio retorico, “onanismo mentale”, un tentativo, peraltro ricorrente, come le malattie esantematiche dell’età infantile, di rimettere tutto in discussione per poi, secondo la notissima affermazione di Tancredi (ne Il Gattopardo, ça va sans dire) concludere trionfalmente che nulla è cambiato. Per fortuna! Quando, in passato, ero costretto a partecipare a dibattiti sulla vexata quaestio, utilizzavo un paradosso, e cioè che, se nel V secolo avanti Cristo, i vari Eschilo, Sofocle, Euripide e compagnia varia, invece che scrivere i drammi che sono arrivati fino a noi, avessero fatto delle performance, sarebbe cambiata radicalmente non la storia del teatro, ma la storia tout court, quasi certamente non avremmo avuto Shakespeare e gli elisabettiani e non disporremmo delle “categorie emotive” (secondo la tesi di Harold Bloom) a cui loro hanno dato forma espressiva, facendole diventare un nostro retaggio. In pratica, saremmo dei semianalfabeti!
E’ necessario, però, a questo punto, se non si vuole eludere la domanda, ribadire alcuni concetti fondamentali, che permettano di valutare il fenomeno nella sua complessità. Il teatro, quello che, convenzionalmente, viene definito “di prosa”, ha una dimensione “contenutistica” (utilizzando il termine per comodità, data la sua innegabile semplicità ed efficacia e senza volere con questo riaprire vecchie querelle, tanto obsolete quanto inutili) che è, e non può che essere, letteraria – sia pure con una propria specificità di scrittura che differenzia la drammaturgia dalla narrativa piuttosto che dalla poesia o dall’epica (il fatto che parecchi registi contemporanei attingano, per le loro messinscene, al patrimonio letterario, da Gadda a D’Arrigo, da Proust allo stesso Pirandello romanziere, significa semplicemente che rintracciano ed esaltano la componente drammaturgica, spesso presente nella narrativa o nella poesia) – e una dimensione “strutturale”, che è quella tipica di un mezzo di espressione “mediato”, quale si è venuta formando nei secoli e che è stata rinnovata profondamente nel ’900. I due livelli sono strettamente connaturati e interdipendenti. Svincolarli l’uno dall’altro, privilegiando l’aspetto visivo o sonoro o gestuale, significa semplicemente mutare linguaggio espressivo, il che è senz’altro legittimo, nell’ambito di un più ampio genere che può anche definirsi “spettacolo” in senso lato, ma non ha nulla a che vedere con la species teatro di prosa. E non si tratta, com’è evidente, di un problema nominalistico o epistemologico, ma di una questione che attiene all’evoluzione storica di una specifica forma espressiva (“il luogo d’incontro di tutte le arti”, secondo la splendida definizione di Roland Barthes), che costituisce un retaggio fondamentale della cultura occidentale. Il livello letterario del teatro, il “testo”, per intendersi, consente, infatti, l’apprendimento di quelle che Harold Bloom chiama (riferendosi a Shakespeare), le “strutture fondamentali dell’umano”.
Il “meccanismo” teatrale è soltanto uno strumento attraverso il quale il testo viene interpretato e trasmesso ai fruitori, in modi che possono essere i più diversi. Se il meccanismo prevarica sul testo, o lo annulla, o addirittura ne prescinde – sono tutte “gradazioni” riscontrabili nelle messinscene di molti registi attuali – diventa una sorta di macchina celibataire e il teatro non è più in grado di creare e trasmettere “cultura”. Basti pensare soltanto a cosa sarebbe stato dell’evoluzione spirituale e intellettuale dell’occidente se i grandi tragici greci o Shakespeare, invece che scrivere testi drammatici, avessero realizzato delle performances musical-visive. La storia dello spettacolo è piena di documenti su “eventi” (anche di straordinari, geniali “registi”, da Leonardo a Bernini, a Goethe,), ma si tratta di notizie, di testimonianze anche, che non possono diventare tessuto culturale, proprio perché è assente la componente letteraria. Quando, nel 1994, Siro Ferroni fondò “Drammaturgia” (vissuta fino a pochi mesi fa), si prefisse lo scopo di “contribuire al risveglio della scrittura teatrale superando una concezione e una pratica…di separazione del lavoro testuale dal lavoro scenico non avendo mai creduto in chi teorizzava – con una semplificazione solo in parte dettata dal bisogno di rompere con le convenzioni tradizionali – il primato esclusivo e autoreferenziale della cosiddetta “scrittura scenica”.”
L’uomo di teatro che più di altri, e più drammaticamente, ha incarnato, sulle nostre scene, la contraddizione insita nel fatto che il rinnovamento non può mai giungere al punto di non-ritorno costituito dalla perdita di significato dell’evento, è stato Carmelo Bene, il quale, nelle sue ultime interpretazioni, al limite (o al di là) del solipsismo (adattatore, regista, scenografo, musicista, datore di luci, attore), ha inclinato verso una dimensione quasi esclusivamente visiva e sonora dello spettacolo, anche se le sue straordinarie doti avevano sempre bisogno di un “sostegno” tradizionale, qual era il suo amato, o dannato si dovrebbe forse dire, Shakespeare, utilizzato semplicemente come una sorta di “basso continuo” per le sue personali, inimitabili – e senza alcuna possibilità di diventare nutrimento comune – variazioni sui temi fondamentali, estratti, scarnificati in un certo senso, dal testo. Del resto, affermava egli stesso che il teatro era morto e che lui ne celebrava i (sontuosi) funerali.
La specificità del linguaggio teatrale trova conferma, d’altra parte, nella sua resistenza al processo che si potrebbe definire di “delegittimazione” che nel primo ventennio del XX secolo ha coinvolto ogni forma di espressione artistica, rompendo in qualche modo tutti i ponti con la tradizione. Ciò è avvenuto con l’avvento, nell’arte figurativa, dell’astrattismo, che ha fatto esplodere il problema della legittimazione del “soggetto” a essere ancora il centro del fare artistico, mai messa in discussione, a partire dai graffiti di Altamira o dalla Venere di Willendorf, fino ai primi quadri “astratti” di Kandiskj. Il processo non riguarda però esclusivamente le arti visive (in queste è soltanto più “evidente”, per ragioni intuitive), bensì tutte le forme di espressione, dalla musica (con l’abolizione della tonalità) alla poesia, alla narrativa. L’ “astrattismo”, infatti, negando la riconoscibilità del mondo, tende a far acquisire all’opera d’arte una “insignificanza” analoga a quella posseduta dalla musica, realizzando così l’intuizione di Pater (a proposito di Giorgione) che “tutte le arti tendono alla condizione della musica”.
Rispetto a tale processo, che non è esagerato definire epocale (si tratta di una delle tante “rivoluzioni” avvenute nel XX° secolo e che lo rendono, contrariamente alla nota definizione di Hobsbawn, il secolo più “lungo” della storia) il teatro non è stato toccato dai problemi che quella “perdita del centro” comportava, per ragioni che attengono alla sua natura specifica. Se si scorre, infatti, con un rapido colpo d’occhio, il panorama, peraltro affollatissimo, dei movimenti che hanno attraversato la scena europea e mondiale dalla fine dell’Ottocento a oggi, non vi è un solo esempio (salvo le rare esperienze, legate peraltro strettamente a ricerche di tipo figurativo, di teatro “dada” o “futuristico”) di teatro del “non-essere”. Questo non soltanto nell’ambito della letteratura teatrale che, al di là degli innegabili “slittamenti” formali, da Cechov a Ibsen, da Strindberg a O’Neil o a Pirandello (così acutamente rilevati e interpretati da Szondi), sembra poco incline ad abbandonare i capisaldi strutturali che, da Eschilo in poi, hanno reso il teatro una delle forme di espressione più “conservatrici”, ma neppure nell’ambito, senz’altro più vivace, del rinnovamento scenico, dove, da Appia e Craig, i maestri riconosciuti del Novecento, ad Artaud, a Copeau, a Grotowskj, a Barba, al Living, sembra prevalere un orientamento al “misticismo”, che non è certo la negazione del soggetto, ma la ricerca, invece, della sua essenza più profonda.
La verità è che il teatro (così come la letteratura), in quanto ha per struttura portante il linguaggio, la parola, che costituisce l’identità dell’uomo, non può che esprimersi “positivamente”. La lingua non può, per sua natura, negare l’essere. Tutta la ricerca logica contemporanea conferma questo dato inoppugnabile, che la lingua crea oggetti, quand’anche siano…inesistenti (come i famosi “liocorni” del paradosso di Ayer). Il teatro, in altri termini, non può riscattare la propria intrinseca “impurità”. Neppure le “opere senza parole” di Beckett possono essere considerate “insignificanti” (nel senso proprio della musica) e, comunque, non sono un punto di partenza, ma un punto di non-ritorno (analogamente alle “Variazioni op.27” di Webern). La “rivoluzione” pirandelliana, con il suo testo fondamentale, i “Sei personaggi”, è stata radicale, perché, pur rimanendo all’interno di una tradizione consolidata, ha scardinato la convenzione in base alla quale i personaggi dovevano essere “reali”. La vera innovazione del drammaturgo siciliano (ma anche… “tedesco”, com’è noto) consiste nell’aver riportato i personaggi a una dimensione esclusivamente teatrale. E’, in qualche modo, un teatro “epico” ante litteram il suo, ancora più “straniante” di quello brechtiano, in quanto non si limita a modificare il modo di recitare degli interpreti, ma l’essenza stessa dei personaggi. Si potrebbe adattare perfettamente a Pirandello l’aneddoto riferito a Matisse, il quale a un interlocutore che gli chiedeva come mai in un suo quadro la donna ritratta avesse una gamba più lunga dell’altra, avrebbe risposto: “guardi che non si tratta di una donna, ma di un quadro”. Ecco, anche Pirandello, a uno spettatore che gli avesse rimproverato una certa schematicità dei suoi personaggi (evidente soprattutto nelle opere “minori”), avrebbe potuto rispendere che si tratta appunto di personaggi e non di uomini veri.
Il teatro del Novecento non soltanto, ripeto, non è stato coinvolto dal processo di ridefinizione dell’oggetto, messo in moto dall’avvento degli “astrattismi”, ma, al contrario, ha speso ogni energia nel tentativo di recuperare quei valori che il teatro tardo-ottocentesco aveva disperso. La reazione alla “chiacchiera” (il “vuoto indaffarato”, reso dal termine tedesco “Gerade”, che Heidegger assume addirittura come “categoria del negativo”), così ben sintetizzata nella formula “riteatralizzare il teatro”, lanciata da Fuchs (il maggior teorico dell’ “ideologia della parola) e ripresa da Copeau (colui che ha messo in pratica quelle teorie), produce un ritorno al valore della parola, alla sacralità del “logos”, attraverso il quale avviene una “fusione sublimata di attori-sacerdoti con un pubblico di adoranti”. Fuchs fissa i canoni basilari di tutte le teorie e le prassi del “Teatro di Parola” che si sarebbero sviluppate nel corso del secolo. Il dramma è una “partitura”, che ha lo scopo di porre l’animo degli spettatori in uno stato di solenne raccoglimento. Era inevitabile che una concezione così rigida, più che monastica, del lavoro teatrale producesse insofferenza per lo stesso luogo scenico tradizionale: “Credo che per salvare il teatro, bisogna uscire dal teatro…noi andremo al di fuori, sulla strada, per cercare di incontrarvi ancora il Dio”. Sono parole di Copeau che ripeterà, cinquant’anni dopo, uno scrittore “mistico” ed “eretico” al tempo stesso, come Pasolini, nel suo “Manifesto per un nuovo teatro” : “Il Teatro di Parola andrà coi suoi testi (senza scena, costumi, musichette) nelle fabbriche e nei circoli culturali”.
L’evoluzione che non poteva avvenire a livello di linguaggio, di “testo”, pena la perdita di “significato” del Teatro, si è realizzata invece a livello di “sovrastruttura” (anche questo termine viene utilizzato soltanto per comodità) sottoponendo il meccanismo scenico a ogni forma di manipolazione possibile. Nei paesi europei, con modalità coerenti con la storia e il ruolo del teatro nelle varie società, ma anche in America, nel corso del novecento, si è prodotto un radicale rinnovamento del linguaggio scenico. I grandi registi, da Meierchol’d a Stanislavsky, da Appia e Craig a Grotowsky, dalla Malina del Living a Barba, da Brook a Serban, a Bob Wilson e in Italia tutta la cosiddetta “avanguardia” (che ha costituito senz’altro il fenomeno nazionale più rilevante, per quantità di registi e per originalità di proposte), hanno ampliato a dismisura le possibilità del “meccanismo” espressivo, creando un’infinita gamma di “forme” linguistiche.
Resta il nodo dell’integrazione di tali forme con la drammaturgia e soprattutto con quella contemporanea, nodo che non può essere semplicemente “tagliato”, ritenendo che il patrimonio “classico” sia sufficiente, potendo essere reinterpretato (“tradito”) in tanti modi, a tenere in vita il teatro (come dichiarava recentemente un illustre critico). Se questo è uno dei punti di crisi, il più rilevante, perché riguarda la sopravvivenza stessa del linguaggio teatrale, l’altro è senza meno lo strapotere della televisione, la sua pervasività, ma anche il suo “vampirismo”, che le impone di appropriarsi dei contenuti e dei moduli espressivi del teatro come del cinema, come del gioco e così via.
E’ necessario rimettere insieme scrittori e produzione in senso lato, perché la drammaturgia contemporanea è la spina dorsale del teatro. Se essa è assente dai palcoscenici, il teatro a lungo andare non è più un luogo dove accadono eventi “significativi”, dove si dibattono i problemi contemporanei, si esprimono le idee, i sentimenti degli uomini di oggi, in una forma che permetta, oltre all’immediata fruizione dello spettacolo, anche la “trasmissione” dei contenuti ad altri contesti culturali e ad altre generazioni. Sarebbe inimmaginabile oggi una polemica, per un testo teatrale, come accadde per “Il Vicario” di Hochhuth. E non perché nessuno sappia scrivere un testo come quello, ma perché non lo scriverebbe per il teatro, ma per il grande o il piccolo schermo, luoghi vivi e vitali del dibattito di idee attuale.
Ecco perché una pessimistica previsione, come quella fatta da K. Zanussi, il grande regista e intellettuale cattolico polacco, che il teatro si avvia a diventare come l’opera lirica, da un lato è plausibile e dall’altro, proprio per questo, è allarmante. Anche perché, a differenza della musica e in particolare della musica lirica che, pur se ha costituito un momento importante della storia (e del patrimonio) culturale dell’occidente, il teatro non è soltanto un mezzo di espressione delle emozioni, ma uno strumento – fino a oggi è stato così – di formazione intellettuale, oltre che spirituale. Come sarebbe il mondo senza Shakespeare? Anche senza cadere negli eccessi di un Oscar Wilde secondo cui “la natura imita Shakespeare al meglio delle proprie possibilità”, non si può non convenire con Harold Bloom, che il grande drammaturgo “ha inventato l’umano come lo conosciamo noi”. Cosa accadrà se (è sempre Bloom) “nella cultura della realtà virtuale, in parte profetizzata da Huxley e in maniera diversa da Orwell, Falstaff e Amleto non appariranno più come paradigmi dell’umano?”
Né vale consolarsi, pensando che, comunque, ove quella previsione dovesse avverarsi (il teatro come l’opera lirica), ci resteranno sempre Amleto e Falstaff, Otello e Jago, come ci restano Violetta e Turandot, perché se la scrittura teatrale non sarà più praticata, pian piano si affievolirà il rapporto anche con i grandi classici, perché è attraverso la continua meditazione e riscrittura dei temi che costituiscono la sostanza dei drammi scespiriani o sofoclei che si potranno continuare a sentire vicini quei modelli, a capirli addirittura (come sostiene con passione George Steiner).